In carcere da innocente, lo Stato lo risarcisce con 98mila euro un imprenditore di Tortoreto
Arrestato e condannato in primo grado per rapina, poi assolto in appello: "Ma la mia reputazione non ha prezzo, sono stato costretto a svendere l’attività commerciale"
TERAMO. Non è vero che tutto passa. I sospetti, le insinuazioni ti restano addosso come un vecchio vestito. Anche dopo che dei giudici ti assolvono e ti riconoscono 98mila euro di danni per ingiusta detenzione perchè in carcere non avresti dovuto finirci. «Ma nessuna somma vale la mia reputazione»: Thomas Di Eugenio, 30 anni, di Tortoreto, non smette di ripeterlo. Arrestato con l’accusa di rapina aggravata, condannato in primo grado a quattro anni e mezzo, assolto in appello perchè il fatto non sussiste: in mezzo tre mesi e mezzo in carcere, quattro ai domiciliari e una vita in frantumi con un’attività imprenditoriale distrutta. «Per un anno non sono uscito di casa perchè avevo paura di incontrare la gente», dice, «sono stato costretto a vendere, anzi a svendere, l’attività di soccorso stradale che avevo avviato perchè tanto nessuno mi chiamava più».
Di Eugenio, incensurato, venne arrestato il 7 febbraio del 2012, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare, per rapina aggravata in concorso con Claudio Ridolfi (65enne imprenditore di Giulianova anch’egli condannato in primo grado e assolto in appello perchè il fatto non sussiste) commessa ai danni di un giovane a cui Ridolfi aveva affittato un bar a Martinsicuro e con cui erano in corso delle diatribe di natura civilistica perchè, secondo il 65enne, l’uomo non era in regola con i pagamenti. Per l’accusa la rapina sarebbe avvenuta cinque mesi prima, esattamente il 21 ottobre del 2011. Secondo gli inquirenti quel giorno Ridolfi e Di Eugenio, che si sonoscevano di vista, avrebbero rapinato l’uomo minacciandolo con un coltello e facendosi consegnare la somma di tremila euro che qualche ora prima Ridolfi aveva versato davanti ad un notaio a titolo di caparra confirmatoria per riottenere la licenza del locale. Ricostruzione, quella della parte offesa, che i giudici d’appello non hanno ritenuto credibile. Perchè, hanno scritto nelle due diverse sentenze di assoluzione, «la persona offesa non è credibile, non solo mancano del tutto riscontri alle sue dichiarazioni ma esistono elementi di prova storica e logica che inducono a dubitare della veridicità delle stesse».
Eppure, dice Di Eugenio, «io l’ho sempre detto che ero innocente ma ci sono voluti quattro anni per riconoscerlo». Dopo la sentenza d’appello è arrivato il riconoscimento dei danni subiti per ingiusta detenzione che i giudici aquilani (presidente del collegio Fabrizia Francabandera) hanno quantificato in 98mila euro «perchè», scrivono, «sono stati comprovati il danno alla salute del Di Eugenio e la riferibilità di detto danno all’ingiusta detenzione subita». E aggiungono «avendo il medesimo fin dall’interrogatorio di garanzia vivamente protestato la propria innocenza (al pari del Ridolfi), dichiarando di non conoscere la presunta parte offesa, ritenuta scarsamente attendibile con le sopra indicate sentenze, e non avendo mai mutato nel tempo la propria versione dei fatti».
Oggi Di Eugenio cerca faticosamente di ricostruirsi un presente. «Continuo a chiedermi perchè sia successo proprio a me», ripete, «ma non trovo nessuna risposta. Non è stato facile superare quello che mi è successo e ancora oggi non lo è. Devo ringraziare mio padre che mi è sempre stato vicino e il mio avvocato Cataldo Mariano. Ma la mia esistenza è profondamente cambiata. Oggi continuo ad essere seguito da uno psichiatra e ci sono dei giorni in cui il passato sembra presente. Non so se credere o no alla giustizia, ma so sicuramente che quattro anni sono troppi per vedersi riconosciuta la verità. Perchè mentre nelle aule di tribunale si fanno i processi la vita delle persone va avanti, il mondo non si ferma, e non è giusto perdere la serenità, il lavoro, quello che sei riuscito a fare. Penso che mai nulla tornerà come prima». Perchè basta un attimo per seppellire una vita.
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