l'intervista

«Carichieti riparte, sminato il pericolo»

Dopo la lunga notte di domenica, tutti al lavoro per il rilancio. Ma Creditfidi annuncia la prima causa per le “subordinate”

CHIETI. «Guardi, il trionfalismo sarebbe fuori luogo, ma le assicuro che è stato sminato un problema enorme: avere mantenuto i livelli occupazionali in una banca che riparte con una buona liquidità e i coefficienti patrimoniali in ordine è già motivo di grande soddisfazione». Salvatore Immordino è l’uomo che il Fondo di risoluzione crisi della Banca d’Italia ha chiamato a guidare la nuova Carichieti, dopo il taglio netto con il passato che domenica ha portato alla liquidazione della vecchia banca e della montagna di crediti difficili che avevano portato l’istituto sull’orlo del crollo.

Lo incontriamo in un breve intervallo del vortice di riunioni che servono per riportare la Carichieti in una situazione di normalità, un’agenda complicata che condivide con gli amministratori delegati degli altri tre istituti al centro di questa gigantesca operazione di salvataggio, ovvero la Banca Marche, la Banca dell’Etruria di Arezzo e la Cassa di risparmio di Ferrara. Proprio il nuovo ad dell’istituto emiliano, Giovanni Capitanio, ha suscitato un vespaio di polemiche usando una metafora calcistica: «In un fine settimana», ha detto, «siamo passati in un balzo dalle zone basse della classifica quasi alla zona Uefa», scatenando la reazione dei piccoli azionisti. Immordino, banchiere di lungo corso (ha 64 anni, di cui 40 trascorsi nel gruppo San Paolo-Intesa) sembra aver scelto un profilo più basso. Invita solo ad avere fiducia, a vedere anche il bicchiere mezzo pieno del salvataggio («Forse un po’ più di mezzo», azzarda) accanto al bicchiere mezzo vuoto del crac della vecchia banca e al denaro perduto per chi aveva investito nelle sue obbligazioni subordinate.

Ma è chiaro che l’impresa è tutt’altro che facile: in fin dei conti esiste un unico vero precedente di una banca che ha chiuso i battenti il venerdì con un’insegna e ha riparto il lunedì con un nome nuovo e un assetto patrimoniale completamente rivisto: stiamo parlando del Banco Ambrosiano, che nel lontano 1982 risorse dalle ceneri del crac causato da Roberto Calvi, diventando Nuovo Banco Ambrosiano. Un’esperienza riuscita, che però non è stata una passeggiata. C’è da ricostruire tutto, a partire dalle deleghe di un vertice che è stato insediato in corsa nella notte tra domenica e lunedì. Le riunioni, nel palazzo di via della Colonnetta, sono andate avanti fino alle 4 di mattina. Passate due ore, alle 6, si è tenuto il primo consiglio d’amministrazione, durante il quale il presidente, Roberto Nicastro, e l’unico consigliere, Maria Pierdicchi, in teleconferenza da Roma hanno assegnato a Immordino le deleghe operative. A quel punto la banca poteva riaprire i battenti, con i livelli di responsabilità di legge, autorizzata da Bankitalia a conservare l’uso del vecchio Iban e del vecchio codice Abi, costretta invece a mutare Partita Iva, codice fiscale.

Adesso la road map è chiara: la prima tappa è chiudere l’accordo sindacale sugli esuberi, già quantificati in 135 dei 583 dipendenti in una trattativa avviata quando ancora Immordino era commissario straordinario. Difficilmente l’intesa sarà siglata il primo dicembre, ma di sicuro non si andrà oltre metà mese. Nel frattempo partirà l’operazione più importante, ovvero la ricerca di un nuovo proprietario, attraverso una gara pubblica che potrebbe riservare non poche sorprese. Non a caso il ruolo dell’attuale gestione è stato definito di “banca ponte”, proprio perché si tratta di fare da raccordo tra la vecchia, disgraziata gestione, e una fase completamente nuova. Dopo l’assoluta riservatezza imposta dal commissariamento, finalmente a via della Colonnetta si tornerà alla trasparenza: Nicastro e Immordino firmeranno un primo bilancio a fine anno, di fatto un esercizio di soli 40 giorni, per poi perfezionare la cessione verosimilmente nel 2016.

Toccherà a un pool di professionisti guidato da Massimo Bigerna il compito di sbrogliare la complicata matassa delle obbligazioni subordinate. Come riferiamo a fianco, è certo che titoli per un valore di 7 milioni sono stati “bruciati” nel crac, essendo convertibili e quindi considerati “strumenti di capitale”. Sulle subordinate per i restanti 18 milioni il quadro ancora non è chiaro e centinaia di risparmiatori attendono con il fiato sospeso.

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