Quella lettera di Levi sul male assoluto

22 Febbraio 2019

«Ci radono i capelli, ci tatuano sul braccio un numero progressivo, ci denudano, ci rivestono di stracci immondi a rigoni: non siamo più uomini. Nessuno spera più di uscire». Quando scriveva queste parole Primo Levi era tornato da pochi mesi nella sua Torino dal campo di sterminio di Auschwitz. La data: 26 novembre 1945. Lo scrittore italiano di origine ebraica, morto suicida nel 1987, le scriveva quelle parole in una lettera ai suoi familiari che La Stampa ha pubblicato ieri. Avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 31 luglio, l’autore di classici come “Se questo è un uomo” e “Sommersi e salvati”. Scrive ancora Levi, in quella lettera: «Il 22 febbraio '44 siamo partiti tutti, 650 disperati con bambini, donne, vecchi, 50 rinchiusi in ogni vagone merci, 4 giorni, 4 notti di viaggio senza dormire e senza bere... siamo tornati in 15». Le parole di Levi suonano oggi, come un ammonimento in un’Europa di nuovo esposta al veleno dell’antisemitismo a 75 anni dalla Shoah, lo sterminio per mano nazista e fascista di 6 milioni di ebrei. Lo scrittore sembra scorgere l’embrione del male assoluto come in un uovo del serpente. E scrive: «Il fascismo ha dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi, ma non è morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina materiale e morale in cui esso ha indotto il popolo».
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