Cocullo, l’antico rito dei serpari resiste "piace ai giovani"
L’antropologa Giancristofaro: entrerà nella Lista Unesco e avrà un futuro perché è custodito da mani sapienti. Anche quest'anno, registrate oltre 20mila presenze
COCULLO. San Domenico, Cocullo e un rito, quello dei serpari, candidato a diventare patrimonio dell’Unesco. Il primo maggio in Abruzzo è anche questo: l’incontro tra la storia del santo terapeuta medievale, protettore contro il morso dei serpenti e addomesticatore di lupi, e quella di un piccolo paese che lotta contro lo spopolamento e la crisi economica ma che, in un solo giorno di festa, riesce ad attrarre qualcosa come ventimila visitatori. Storia di una festa “eco-compatibile”, custodita nel racconto e nelle mani dei sapienti cercatori cocullesi di serpi che da tempo immemorabile conserva intatto il suo fascino.
Il rito è tornato a ripetersi e statua di San Domenico è stata di nuovo vestita dalle serpi che i cercatori hanno cacciato già da qualche giorno nei monti circostanti il paese. Fascino e mistero di una festa che parla di fede e tradizione. Ne abbiamo approfondito alcuni aspetti Lia Giancristofaro docente di Antropologia culturale all'università d’Annunzio di Chieti e direttore della “Rivista Abruzzese”, trimestrale di cultura fondato nel 1948, che in rappresentanza della Società italiana per la Museografia dei Beni demo-etno-antropologici, partecipa ai lavori Unesco per l’applicazione della Convenzione per la Salvaguardia del patrimonio culturale intangibile (2003).
Dottoressa, come e perché si è interessata a questo culto?
«Notavo molto orrore per i serpenti, anche per quelli innocui, uccisi senza pietà. Eppure presso i Greci e Romani il “serpente di casa” godeva di rispetto, in quanto utile sterminatore di topi, ben più pericolosi per la dispensa e per la salute umana. Tra riflessioni e curiosità, ho conosciuto Cocullo seguendo Alfonso Di Nola, alle prese col “perché” del serpente e del lupo nei riti in onore di San Domenico Abate, riformatore, terapeuta e addomesticatore di lupi, una sorta di antesignano di San Francesco d’Assisi».
Un rito indubbiamente affascinante perché ha come “protagonisti” i serpenti, animali non proprio amati dall’uomo.
«Il tabù che circonda il serpente è il frutto dei postulati religiosi che in esso simboleggiano il male assoluto. Alcuni contesti hanno respinto questa negatività: oltre a Cocullo e Pretoro, anche altre feste, come la Madonna dei Serpentelli di Cefalonia, prevedono manipolazione di serpenti innocui. Queste feste sono amate perché i serpenti innocui possono essere avvicinati per “intercessione divina”. La temporanea addomesticazione dei serpenti si ha grazie al “sapere” dei serpari che, in modo eco-compatibile, catturano i serpenti per offrire ai visitatori l’esperienza culturale del serpentello “placato” da un mix irripetibile di condizioni. Non viene richiesta parcella per questa riconciliazione: si tratta di un dono, frutto di effervescenza festiva e solidale».
[[(Video) Cocullo, in 20mila all'antico rito dei serpari]]
Nonostante la sua peculiarità, anche il rito dei serpari, come molte tradizioni locali, rischia di scomparire, perché?
«I giovani sono attaccatissimi alla festa, ma cercano lavoro altrove, quindi bisogna fare i conti con la fragilità del contesto sul quale poggia la trasmissione di questo sapere. Dal 1900 ai nostri giorni, il paese si è svuotato, arrivando a meno di 300 abitanti. I cocullesi non si arrendono e, nel loro piccolo, rappresentano tutti quei paesi che con coraggio cercano di arginare spopolamento, degrado economico e mancanza di prospettive. Questa festa ha per protagonista il rapporto uomo-ambiente nella dimensione religiosa, senza preconcetti, dunque è una festa di mediazione, nonostante sia prodotta da una comunità in difficoltà, o forse proprio grazie a questo. Esiste una sproporzione tra l’investimento fatto da un micro-paese e il ritorno d’immagine di cui si giova l’intera regione. Un paese di 300 abitanti oggi è in grado di attirare ventimila visitatori, e nessuna altra festa abruzzese registra un simile impatto, per quanto pubblicizzata, finanziata ed enfatizzata da spettacoli e costumi teatrali. Cocullo sembra la rivincita politica degli eremiti che, come Domenico Abate o Pietro da Morrone, scelsero la semplicità e l’umiltà, lasciando un segno indelebile nelle coscienze».
Cocullo, dunque, resiste, anzi insiste e, proprio per scongiurare la perdita di questo rito secolare, ha avanzato la candidatura per ottenere il riconoscimento del rito come patrimonio Unesco. Nei giorni scorsi la firma del protocollo d’intesa tra il Comune e numerosi soggetti culturali ed istituzionali a sostegno della candidatura. Ci spieghi meglio questo progetto.
«Questo rito può essere iscritto nella Lista Unesco del patrimonio culturale immateriale che necessita di essere urgentemente salvaguardato. La candidatura implica due anni di formazione e progettazione, dunque verrà formalizzata nel 2017, ma la sua base è solida, perché la popolazione è stata affiancata da esperti e opera da trent’anni come un laboratorio, creando un network con altri Comuni dell’Appennino e un percorso di salvaguardia delle specie ofidiche protette assieme ai Parchi (prima di essere liberati, i serpenti sono sottoposti a censimento e visita veterinaria). I cocullesi sanno bene che l’Unesco non elargisce etichette, invitando altresì a progettare un futuro. L’obiettivo è attirare persone, stimolare attività imprenditoriali, creare occasione di lavoro e di residenza e quant’altro possa sostenere un “museo diffuso” in un piccolo borgo montano».
Allargando un po’ lo sguardo al territorio, perché tante tradizioni rischiano di scomparire?
«La tradizione non è il passato che entra nel presente, ma è il presente che seleziona la parte del suo passato più utile per costruire il futuro. Tradizione significa “consegna” (dal latino traditio), ma anche tradimento. Oggi portare avanti una tradizione implica considerarla alla luce di diritti umani, sostenibilità ambientale, sostenibilità economica, interesse delle future generazioni, ed è ovvio che la spinta debba venire dall’interno delle comunità titolari, non avrebbe senso un “accanimento terapeutico” da agenti esterni».
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