Gianni Amelio, 80 anni di un regista acuto e di grandi passioni
Nei suoi film discussi e amati indaga la storia italiana attraverso personaggi contraddittori e solitari
È un uomo di grandi passioni e di segrete dolcezze Gianni Amelio che oggi compie 80 anni. È un appassionato di cinema che passerebbe le giornate a parlarne, a collezionare manifesti antichi, a rivedere il cinema del passato se non fosse già travolto dalle idee di una sua nuova creazione.
Già, perché prima di tutto Amelio è un regista, uno sceneggiatore, un indagatore sottile della psiche che ogni volta mette il suo inconfondibile stile a servizio del racconto sociale. Fargli gli auguri vuol dire aspettarlo con impazienza alla sua prossima fatica. E fatica è un buon modo per leggere la sua metodica e personalissima ricerca sulla realtà col mestiere del cinema. È nato a Magisano, paesino di poche centinaia di abitanti sulle colline vicino a Catanzaro e conserva i tratti del calabrese: un po’ montanaro nell’animo, fedele agli amici, spietato nei giudizi per onestà intellettuale. Dicono che l’abbandono forzato del padre che lascia la famiglia quando il bambino è nato da poco per assistere suo padre emigrato in Argentina abbia segnato l’infanzia di Gianni, cresciuto tra le “donne sole” di casa (madre e nonna). Si rivelerà ottimo studente al liceo classico e poi laureato in filosofia all’università di Messina. Qui scopre la passione per il cinema, nei cineclub dove anima iniziative e rassegne fino a entrare nella redazione della rivista Giovane critica.
A vent'anni fa il grande balzo verso Cinecittà e impara il mestiere come aiuto regista o operatore di macchina. Con l’occhio incollato all’obiettivo e una passione per il neorealismo, si cimenta presto anche nella regia documentaria. I suoi maestri sono Gianni Puccini, Liliana Cavani, Giulio Questi, Ugo Gregoretti. In quel periodo scopre anche la televisione, dove debutta nel 1970 con il film: La fine del gioco. Sono gli anni in cui la Rai investe per la prima volta nel cinema. Per i “programmi sperimentali” della tv di stato Amelio dirigerà nel ’73 La città del sole, ritratto caravaggesco (nelle luci e nei tagli d’inquadratura) del monaco calabrese Tommaso Campanella raccontato nel suo pensiero ribelle e solitario, evitando la struttura tradizionale della biografia. È il film che lo rivela grazie anche ai riconoscimenti in Francia.
Bernardo Bertolucci tre anni dopo lo invita sul set di 900 e ne nasce uno dei più riusciti modelli di making of del cinema italiano: Bertolucci secondo il cinema. Seguirà La morte al lavoro, giallo psicanalitico che si mette in luce al Festival di Locarno e gli permette di dirigere – un anno dopo – Il piccolo Archimede, il suo film per la tv più famoso con cui Laura Betti vince il premio per la migliore attrice al Festival di San Sebastian. Ormai per Amelio è tempo di tentare la via del cinema-cinema ed eccolo debuttare una seconda volta, nel 1982, con Colpire al cuore, realizzato con pochi mezzi grazie all’intuizione del produttore Porcelli: da un’idea del regista gli affida un copione scritto da Vincenzo Cerami su luci e ombre del terrorismo in Italia. Il tema è allora di bruciante attualità e l’accoglienza alla Mostra di Venezia divide la critica nonostante la storia non rispecchi un caso di cronaca. Oggi Colpire al cuore resta però una delle più attente e lucide analisi sul periodo e sulle motivazioni di quella lacerante pagina di storia nazionale.
Ormai maturo nelle scelte e nelle ambizioni, sempre affiancato dalla Rai, Amelio guarda più indietro nel passato italiano con I ragazzi di Via Panisperna (1987) realizzato in doppia versione per grande e piccolo schermo e dedicato alla generazione dei grandi fisici italiani, da Fermi ad Amaldi a Majorana. Subito dopo è la volta di Porte aperte (dal romanzo di Sciascia), girato nell’89 con Gian Maria Volonté e candidato italiano all’Oscar. Per l’autore è la consacrazione internazionale che spinge il successivo Il ladro di bambini nel concorso di Cannes dove vince nel 1992 il Gran Premio della Giuria e ottiene poi un grande successo di pubblico. Il lavoro successivo, Lamerica (1994) porta in primo piano il dramma dell’emigrazione dall’Albania all’Italia. Applaudito alla Mostra di Venezia, ha lo spessore del kolossal per impegno produttivo. Curiosamente tutto questo porta a un periodo di silenzio: passano 4 anni per ritrovare Amelio in concorso a Venezia: Così ridevano è forse il suo film più personale e difficile che però vince il Leone d’oro.
La filmografia successiva di Amelio annovera tentativi sempre più personali e diversi per approccio e stile: Le chiavi di casa (2004) con Kim Rossi Stuart dal romanzo di Pontiggia sulla disabilità; La stella che non c’è, con Sergio Castellitto, accompagna il protagonista in Cina; Il primo uomo arriva in Algeria sulle tracce di Camus; L’intrepido porta Antonio Albanese in Albania ritornando al tema del rapporto tra padri e figli così come il successivo La tenerezza per cui Renato Carpentieri vince il David di Donatello 2018. Infine c’è spazio per Hammamet con Piefrancesco Favino nei panni di un Bettino Craxi stanco e deluso alle soglie della morte. Negli ultimi anni Amelio ha continuato a indagare la storia italiana attraverso personaggi contraddittori e solitari in opere discusse e amate come Il signore delle formiche o il recente Campo di battaglia ambientato nelle trincee della Grande Guerra. Un simile ritmo creativo avrebbe assorbito totalmente molti autori, ma non Amelio che invece ha insegnato negli anni ’80 al Centro Sperimentale di Cinematografia con una passione cinefila ribadita poi, dal 2008 al 2012, come direttore artistico del Torino Film Festival. Siamo sicuri: il giorno del suo compleanno Gianni è allavoro per scrivere una nuova puntata del suo viaggio cinematografico nei mutamenti della società italiana e al centro vi sarà ancora una volta un uomo comune, attraversato dai dubbi e dalle speranze in cui ciascuno può rivedere la propria storia.