Piero Mazzocchetti: la musica nel sangue tra sacrifici e successi
La voce abruzzese nel mondo racconta gli inizi duri e i viaggi a Monaco di Baviera: «Quella discussione con Rummenigge e la crescita fino al terzo posto a Sanremo»
MONTESILVANO. Il verbo al futuro si libra nell’aria. Una voce potente disegna i confini spazio-tempo. “Vincerò, vincerò, vincerò”. Un silenzio surreale. Poi il boato. Sessantamila persone esplodono in un’ovazione. E per quel cantante piccolino, venuto su dall'Abruzzo con un Fiorino bianco e il mito di Dean Martin nel cuore, è l'inizio di un’avventura inimmaginabile. Piero Mazzocchetti, ex chierichetto di Montesilvano, esalta l'Olympiastadion di Monaco di Baviera. La musica nel sangue sin dall’infanzia e una storia tutta da raccontare.
Piero Mazzocchetti, come è iniziato tutto?
«Da quando avevo 6 anni, perché a casa mia c’era un piccolo organo e mia sorella Monia aveva cominciato a suonicchiare. Io, a orecchio, andavo con il ditino e riuscivo a suonare le pubblicità che davano in tv. Con l’indice saltavo di tasto in tasto e veniva fuori il motivetto».
Un predestinato, insomma.
«Fu mia sorella ad accorgersene: “Piero ha un orecchio musicale così sviluppato, facciamogli studiare pianoforte”, disse ai nostri genitori. Avevo 7 anni e così, nella nostra casa a Montesilvano, prendevo lezioni private con dei maestri».
Come andò?
«Iniziai a suonare e verso gli 8-9 anni c’era una piccola chiesa, San Raffaele Arcangelo, con un piccolo garage sotto le case popolari. C’era questo organo che mi affascinava. Nel frattempo iniziai a fare il chierichetto, perché mi piaceva ciò che girava intorno a quel mondo».
Sembra una storia scritta per una carriera religiosa.
«In realtà no (sorride sornione), perché sbagliavo sempre il tempo in cui suonare le campanelle durante la funzione religiosa. E così don Bruno, che iniziava a spazientirsi, mi disse: “Pierì, perché non smetti di fare il chierichetto e non accompagni il coro?».
Dall’altare sacro alla messa cantata.
«Beh, lì cominciai. Facevo le seconde voci del Laudato si’, del Magnificat, del Gloria. Da solo suonavo e cantavo facendo anche il controcanto, armonizzando, con le terze. Allora don Bruno capì e pronunciò una frase che mi colpì molto: “Tu da grande farai il cantante”».
Una frase profetica.
«Fu esattamente in quel momento che mi accorsi che la musica, ma soprattutto il canto, non sarebbe mai uscita dalla mia vita. Entrai in conservatorio e a 11 anni già facevo serate di piano bar, tanti matrimoni».
C’era qualcuno che ti ispirava?
«Avevo 13 anni quando uscì Bocelli con il brano ‘Miserere’ e poi con ‘Il mare calmo della sera’ a Sanremo. Iniziai a scimmiottare la lirica e mi accorsi che la lirica faceva parte delle mie emozioni. A 13-14 anni iniziai ad ascoltare Puccini, Verdi».
Gusti musicali non proprio da teenager.
«E aggiungiamo che erano tempi in cui i dischi si compravano, non c’erano mica Google e Spotify. Io vengo da una famiglia umile: mio padre camionista e mia mamma operaia. A noi figli hanno sempre insegnato l’umiltà, la semplicità, a guadagnarci la pagnotta con il sudore. Non ci mancava nulla, ma il di più bisognava sudarselo».
Begli insegnamenti che tutti dovrebbero prendere come esempio.
«Il fatto è che noi genitori non vorremmo proiettare i sacrifici sui nostri figli, ma dovremmo farlo. Non dobbiamo scaricare le nostre frustrazioni su di loro, questo sì, dobbiamo assecondarli, guidandoli come spettatori silenziosi e non come attori protagonisti. Del resto, la vita è un palcoscenico».
I primi riscontri da cantante?
«Stavo crescendo e, da quella che era partita come una voce squillante, all’improvviso mi ritrovai con un timbro profondo. La prof mi disse che avrei fatto il baritono, ma io volevo essere un tenore. Mi allenavo, ma niente da fare, questo vocione (e intona una nota bassa) non cambiava. Era un periodo in cui suonavo, prendevo il bus da Villa Carmine tra Cappelle e Montesilvano e andavo a scuola. Nel weekend facevo piano bar e matrimoni. Non mi fermavo un attimo».
Non è proprio normale per un adolescente.
«Frequentavo il Geometri, il conservatorio, facevo anche un po’ di sport, tra bici e nuoto. E poi giocavo a calcio nel campetto vicino a casa. Con la rete per raccogliere l’ulivo sistemata dietro la porta per non perdere il pallone».
In tutto questo ha avuto un ruolo importante anche tuo padre, giusto?
«Sì. Mio padre, invece di riposare dopo le fatiche da autotrasportatore, mi accompagnava con un Fiorino bianco per montare l’impianto al ristorante. Fece le cambiali per pagarmi l’impianto. Grazie al passaparola facevo molte serate, soprattutto nel ristorante Dragonara della famiglia di Eusebio Di Francesco. Lo stesso Eusebio amava molto Renato Zero e mi diceva: “Pierolino, mi canti ‘I migliori anni della nostra vita’?”.
Molti matrimoni, insomma.
«Sì, mentre io cantavo in chiesa l’Ave Maria, mio padre preparava l’impianto. Una volta finita l’esibizione in chiesa passavo al ristorante e lì iniziavo a cantare il pop, ma non solo. Si aprì il mio mondo».
Furono i primi successi di pubblico, anche se non numerosissimo.
«Guarda, cantavo Lucio Dalla e Claudio Baglioni, ma quando interpretavo un brano di Bocelli il pubblico si fermava e restava a bocca aperta. Così iniziò il mio stupore nel credere a quello che avevo davanti agli occhi. Era il periodo in cui cominciai a guadagnare i primi soldi. Avevo ormai 18 anni e diventai indipendente, avevo la patente».
E tuo padre?
«Niente da fare: mio padre, pur stremato dalla stanchezza, veniva sempre con me. Conosceva ogni pezzo del mio impianto, era diventato il mio tecnico del suono».
Quando arrivò la svolta?
«A Montesilvano conobbi Gianni, un ristoratore molisano che aveva un locale a Monaco di Baviera. “Perché non vieni a fare il Capodanno da noi?”, mi disse. “È un posto molto bello”».
Iniziò la tua avventura.
«Andai con il Fiorino bianco, con papà vicino a me. Un freddo micidiale, poi a Monaco ci perdemmo. Non conoscevamo il tedesco e cercavamo il cartello Monaco, non Munchen (ride di gusto). Dovetti chiamare Gianni che ci venne a prendere e ci portò in questo ristorante bellissimo».
Cosa aveva di speciale la Germania per convincerti a trascorrere un Capodanno lassù?
«Venivo pagato molto bene e quando iniziai a cantare, dopo qualche brano, arrivò una richiesta, ‘Caruso’ di Lucio Dalla. Iniziai a interpretarlo e quando arrivò la parte alta “Te voglio bene assai, ma tanto, tanto bene, sai” ecc… successe qualcosa di imprevedibile».
Sono curioso.
«Si alzò un signore, venne vicino a me, e mi disse: “Questo è play back, non è musica dal vivo”. Rimasi basito e mi stavo arrabbiando. A quel punto si avvicinò Gianni e mi disse “Ma lo sai chi è quello?”. “No”, risposi. “È Rummenigge, il calciatore del Bayern Monaco”. Vicino a lui c’era un mito assoluto del calcio, Franz Beckenbauer. Mi calmai e, per dimostrare che non era finzione, cantai quel brano a cappella».
Quale fu la reazione?
«Entrammo in sintonia con lui, con il Kaiser, con altri calciatori tedeschi».
Poi cosa accadde?
«Tornai in Italia e purtroppo mia sorella gemella si ammalò seriamente, i farmaci costavano tanto, lei seguiva la cura Di Bella. Avevo 19 anni e un farabutto mi chiese 50 milioni di lire per farmi arrivare a Sanremo Giovani. Proposi ‘Miserere’, ero contento, ma la doccia fredda arrivò quando seppi che lui si era giocato tutti i soldi al Casinò».
Una vera mazzata. Niente Sanremo e niente più soldi.
«Fu un momento terribile, mio padre fu costretto a chiedermi di dargli una mano e quindi accettai di fare pianobar per un anno intero in Germania».
Un momento, e come sei riuscito a conciliare tutto?
«Praticamente andavo a scuola fino al venerdì e poi mi spostavo a Monaco per fare piano bar. E sai perché andavo così frequentemente in Germania? Anche perché Rummenigge era cliente fisso, ci siamo visti tante volte e siamo diventati amici anche con Roger Wittmann – il manager di Mario Basler – con Lizarazu».
Eri diventato l’idolo della squadra del Bayern.
«Wittmann veniva spesso al ristorante e mi disse che avrei potuto cantare per una partita della coppa dei campioni, quella contro la Dinamo Kiev. Mi chiesero di cantare ‘Nessun dorma’. Fu un momento incredibile, davanti a 60mila spettatori. Terminai di cantare e per qualche momento il pubblico rimase in silenzio. Restai perplesso perché sentivo di aver cantato bene. Poi ci fu un’ovazione pazzesca. Mi girai intorno come Russel Crowe nel Gladiatore. Wittmann mi disse che era appassionato di musica e mi propose di farmi da procuratore».
Il sogno che si realizza.
«Non ci credevo e tornai a Pescara. Lui fu molto insistente e mi mandò in uno studio di Monaco che produceva artisti come Phil Collins e altri. Portai un pezzo di Marco Marrone, una canzone scritta con Giuseppe Concettini, ‘L’eternità’, che era in stile Bocelli. Rimasero sbalorditi e decisero che andava fatta con l’accompagnamento di una grande orchestra».
Facevano sul serio.
«“La facciamo ascoltare alla Polidor Universale”, mi dissero. E in quella prestigiosa casa discografica rimasero contenti e mi proposero per una esibizione durante un match per il mondiale dei pesi massimi in Germania. Ricordiamo che anche il grande Bocelli deve il suo successo alla Germania, fu da lì che partì la sua carriera. Insomma, volevano replicare questa dinamica artistica. Feci la canzone in occasione dell’incontro di boxe. Il pugile ucraino era Vladimir Kritchov, attuale sindaco di Kiev, che affrontava un pugile tedesco. Cantai per la Rtl in questo stadio prima dell’incontro e tornai in Italia».
E cosa accadde dopo?
«Mi arrivò un fax a casa dove c’era scritto che sarebbe arrivato un aereo privato a Pescara perché dopo soli dieci giorni il brano era arrivato al primo posto in classifica».
Il coronamento di un sogno?
«Non risposi al fax e non chiamai nessuno anche se loro mi tempestavano di chiamate. Avevo già ricevuto una fregatura da quel farabutto di Sanremo Giovani, non volevo cascarci di nuovo. Poi venne Wittmann in persona con il suo aereo. ‘L’eternità’ era diventata disco di platino, 250mila copie vendute».
Non era uno scherzo, semmai un destino che cominciava a dare segnali positivi.
«Indubbiamente. Incisi un altro brano e arrivai a vendere quasi 400mila dischi in Germania. Dal 1999 al 2006, seguirono tanti concerti con José Carreras, più tante trasmissioni in tv. Ero uno dei cantanti italiani più affermati in Nord Europa».
E allora qual era il problema?
«Mi mancava l’Italia, avevo 27-28 anni. Tutti mi sconsigliarono di tornare a casa perché c’era già Bocelli, quello spazio era occupato. Ma io ero testardo e tornai a Roma, dove conobbi Adriano Aragozzini che era in contatto con Pippo Baudo, l’allora direttore artistico, nonché conduttore, del Festival di Sanremo. Lui si ricordava di me perché avevo duettato con Katia Ricciarelli, che all’epoca era sua moglie».
Un nuovo banco di prova.
«Mi aiutò molto un autore abruzzese, Maurizio Fabrizio, che mi scrisse un pezzo, ‘Schiavo d’amore’. La feci ascoltare a Baudo, che impazzì. Disse: “Non ti posso garantire nulla, se sei tra i big farai Sanremo, altrimenti niente”».
Uno spartiacque professionale non banale, giusto?
«Nel momento della scelta ero al telefono con Aragozzini, e a un certo punto Baudo fece un piccolo preambolo, “è partito con una valigia di cartone, ha vinto dischi di platino e ora andrà a Sanremo”. Esattamente in quel momento cambiò la mia vita e tornai definitivamente in Italia. Arrivai terzo e partì l’operazione in Italia e nel mondo. Sanremo ti fa entrare in un circuito pazzesco».
C’è qualcuno che nel corso della tua carriera è stato determinante per la tua formazione musicale?
«Brutto dirlo, ma è stata la truffa subita facendo indebitare mio padre. Solo grazie al mio carattere ebbi la forza di reagire e di partire per la Germania. Forse è stata la causa scatenante di tutto quello che è accaduto dopo».
C’è un cantante, autore che ti abbia ispirato?
«Andrea Bocelli come interprete, il capostipite del crossover, Lucio Dalla ancora oggi mi dà emozioni, Renato Zero, Maurizio Fabrizio. Per esempio, quando penso a ‘Schiavo d’amore’, dico che è una romanza che mi entra ancora dentro. Non ci sono più brani così, ormai la musica è cambiata. Non ha più ribalta questo genere musicale. Lo stesso Volo si è dovuto reinventare con un repertorio più pop. Io cerco di essere coerente con il mio stile e oggi sono uno dei cantanti ufficiali della Guardia di Finanza in Italia».
Quale tipo di musica ascolti in auto?
«Ascolto tutto, dai Queen a Concato, da Baglioni a Renato Zero. Tutti artisti che hanno lasciato un segno. Di oggi mi piace Lazza, la stessa Annalisa, che è una straordinaria performer. Come autori è più difficile perché oggi scrivono artisti cristallizzati dalle major, sono tutti pezzi preconfezionati. Venditti ha scritto una bellissima frase, “gli amori fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Lo paragono alla mia voglia di interpretare un repertorio classico».
Hai fondato un’Accademia per i giovani, alcuni dei quali hanno partecipato alla trasmissione televisiva ‘The Voice kids’: vedi qualche promessa con un potenziale futuro artistico?
«Abbiamo Alessandra Colacarlo che ha partecipato alle semifinali e poi con Federica Peluffo, abbiamo Dreams talenti d’Abruzzo su Rete8. Abbiamo avuto la fortuna di aver avuto ospiti eccellenti, piccoli ma caparbi e di qualità. A partire da Melissa Memeti, che ha partecipato a ‘Dreams’ ed è fresca vincitrice della finalissima di The Voice kids».
Alla formazione dei giovani è appesa la speranza di veder crescere i cantanti del domani. Non credi?
«L’accademia ha una stretta collaborazione con Rete8. Grazie a Federica Peluffo (la conduttrice tv è anche la compagna di vita di Piero Mazzocchetti, ndr) con cui condivido tante cose del mio lavoro e alla quale mi accomuna tanta complicità, riusciamo a essere complementari nell’aiutare i giovani, affinché abbiano una scuola per renderli più preparati al cospetto delle grandi produzioni televisive. Molti ragazzi non sapevano come parlare davanti alle telecamere, spesso si confrontano con paure e frustrazioni sin da piccoli. La musica può essere una salvezza. Vivere di musica non è un diritto, ma un privilegio».
Giri tutto il mondo e sei stato impegnato recentemente in una serata con il Napoli calcio, invitato da Aurelio De Laurentiis. Sei soddisfatto di questo momento della tua carriera?
«È stata un’esperienza esaltante a Napoli, sono contento di aver contribuito con la musica a vivacizzare la serata».
Quale il momento più felice?
«Il terzo posto a Sanremo e i duetti con Carreras in Cina e in Germania, dopo naturalmente la gioia provata quando è nato mio figlio Francesco nel 2013. Soprattutto dopo aver capito, senza alcun condizionamento da parte mia, che la musica ha un ruolo anche per lui. La sua passione mi inorgoglisce».
E quale quello più amaro?
«La truffa, perché quella è la linea sottilissima che separa la capacità di reagire rispetto al crollo. Pierino la peste è riuscito a fare qualcosa di importante, grazie alla famiglia e a Dio che mi ha donato un talento. La fortuna è stato averlo scoperto e praticato».
I progetti futuri?
«Lo spettacolo ‘That’s amore’ in omaggio a Dean Martin, un figlio di Montesilvano. E in occasione del Giubileo 2025 eseguirò un pezzo di Maurizio Fabrizio con i testi originali di alcune poesie bellissime di Santa Madre Teresa di Calcutta».
E la televisione?
«Ha rappresentato qualcosa di importante per me. A ‘Tale e quale show’ nel 2017 Carlo Conti mi aiutò tantissimo, perché mi consigliò di prendermi meno sul serio».
Dagli stadi alle piccole chiese. La musica vince sempre.
«Sono sempre legato al mio territorio e dove posso ci vado, nei posti più piccoli mi fanno restare con i piedi per terra».
L’Abruzzo come richiamo irresistibile.
«Irrinunciabile, direi. Il mio momento di ristoro è fuggire dalla vita quotidiana e andare a Villalago per andare a mangiare e giocare davanti a un bel fuoco a scopa e a tresette con i miei amici del cuore, come Pavarotti insegnava. Ciò che conta di più, però, è la salute. Per tutti».
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