Nata negli Usa, la banca le blocca i conti

15 Dicembre 2015

È tornata in Italia a 3 anni ma è cittadina americana e in base a una norma recente deve pagare le tasse anche oltreoceano

L’AQUILA. In pochi giorni è finita in un incubo: conto corrente bancario bloccato con l’impossibilità persino di accreditare il suo stipendio, tacciata da evasore fiscale internazionale, costretta a vagare per uffici pubblici, studi di avvocati, ambasciate per cercare di capire cosa le stesse accadendo e, infine, il rischio di vedersi recapitare una mega-multa da decine di migliaia di euro.

Tutto questo sta capitando a un’aquilana di poco più di 50 anni, lavoratrice dipendente, madre di famiglia e persona che ha sempre rispettato le leggi e pagato le tasse. L’unica sua “colpa” è quella di essere nata negli Stati Uniti dove i suoi genitori una sessantina di anni fa si erano trasferiti per lavoro. Lei è nata quando già c’era una legge in base alla quale chi veniva alla luce sul suolo americano acquisiva automaticamente la cittadinanza. I genitori decisero dopo pochi anni di tornare in Italia, nel loro paese di origine, una frazione dell’Aquila. Lei aveva poco più di tre anni. Da allora ha fatto una vita normale: asilo, scuole inferiori e superiori, matrimonio, lavoro. Non è più tornata negli Usa, non ha nemmeno il passaporto, praticamente non si è più mossa dall’Italia. Lei era convinta di essere a pieno titolo solo e soltanto cittadina italiana. E invece poche settimane fa le telefona un impiegato di una banca aquilana: «Dovrebbe passare allo sportello per una firma, una formalità non si preoccupi». Lei va, l’addetto comincia a pigiare sui tasti del computer, vede che qualcosa si inceppa e poi la domanda fatale: «Signora, ma lei è anche cittadina americana?». Non lo so – è stata la risposta – quello che so è che sono nata in America da genitori italiani e sono tornata che ero molto piccola. È come se avesse rivelato di essere una mezza criminale: fermi tutti, il conto viene bloccato, non può più fare operazioni, non può avere carte prepagate e carte di credito, non può usare il bancomat, il datore di lavoro non sa più dove accreditarle lo stipendio. Un dramma che fa passare alla signora notti insonni. Comincia la via Crucis per capire che cosa è successo. Ed ecco che spuntano le due parole “magiche” all’origine di tutta la vicenda: legge Facta. Facta è una sigla di 5 parole inglesi che è inutile star qui a elencare. La sostanza è che si tratta di una norma frutto di un accordo tra lo Stato italiano e gli Usa «che ha l’obiettivo di combattere l’evasione fiscale da parte di individui ed enti statunitensi che detengono, e non dichiarano, attività finanziarie al di fuori degli Stati Uniti d’America». Insomma la signora viene trattata come un evasore fiscale: guadagna soldi in Italia ma non li dichiara negli Usa e quindi non paga le tasse negli Usa. Detta così sembra una favoletta per bambini alla quale chi è nell’età della ragione non può credere; tutto dovrebbe affogare in una grossa risata. E invece per la signora c’è poco da ridere. L’impiegato di banca le dice: lei è in un mare di guai.

Ma come si può sbrogliare questa intricatissima matassa? La donna si rivolge a un avvocato, cerca su Internet casi simili al suo (e ne trova), si rivolge all’Agenzia delle entrate (che è quella che fa da tramite con il Fisco americano tanto che la banca è tenuta a segnalare i conti della signora proprio all’Agenzia delle entrate), chiama l’ambasciata americana, scrive alle autorità e come ultima “ratio” prepara una lettera per il presidente della Repubblica. La normativa Facta è frutto di una intesa tra Italia e Usa che risale al 10 gennaio 2014, recepita in una legge del 18 giugno 2015 numero 95, i decreti attuativi (da cui sono partiti i diktat alle banche italiane affinché segnalassero i conti di persone con cittadinanza americana) sono dell’agosto scorso.

Alla fine di un penoso giro tra uffici ed “esperti” viene fuori che se vuole sbloccare il suo conto deve fornire alla banca oltre al codice fiscale italiano anche quello americano. Quello americano deve essere però rilasciato dall’ambasciata Usa in Italia che vuole il certificato originale di nascita e il certificato di residenza storico. Il certificato di nascita la signora lo ha dovuto richiedere all’ufficio anagrafe della città americana in cui nacque oltre 50 anni fa. Quello di residenza al Comune dell’Aquila anche se ha corso il rischio, per dimostrare che lei è qui in Italia sin da piccola, di dover ritrovare le sue pagelle scolastiche. Ma qui evidentemente siamo alla farsa.

L’ambasciata le ha fatto sapere che il tempo tecnico per avere il codice fiscale è di 7-8 mesi. Quando lo avrà sarà tutto risolto? No, perché a quel punto il Fisco americano sa che lei esiste, controllerà i suoi redditi e soprattutto verificherà se ha presentato, negli Usa, la dichiarazione negli ultimi dieci anni. Siccome la signora, lavoratrice dipendente che quindi paga le tasse fino all’ultimo centesimo, pensava bastasse presentare la dichiarazione in Italia, ora rischia che dagli Usa le arrivi una multa di decine di migliaia di dollari (negli Stati Uniti non paga tasse solo chi guadagna meno di 10.000 dollari l’anno che sono all’incirca 8000 euro).

Insomma risolto un problema potrebbe aprirsi uno scenario pieno di incognite. La signora è arrabbiata soprattutto con il governo italiano che ha detto sì senza rendersi conto che più che combattere l’evasione fiscale la norma avrebbe creato problemi alla gente onesta. La donna si è decisa a denunciare pubblicamente il suo caso per cercare all’Aquila altre persone nella sua situazione in modo da creare una “forza” capace di porre la questione ai massimi livelli del governo italiano. La battaglia dunque è solo all’inizio.

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