Ciarelli scrive dal carcere «Non sono un mostro»

Il rom pescarese accusato dell’omicidio di Domenico Rigante si difende dopo la pubblicazione delle intercettazioni: «Frasi inventate dai traduttori»

PESCARA. Torna a scrivere Massimo Ciarelli. Dal carcere di Vasto dov’è rinchiuso dal 5 maggio per l’omicidio dell’ultrà biancazzurro Domenico Rigante, il rom pescarese di 29 anni che già a giugno aveva inviato una lettera all’avvocato Luca Sarodi, allora difensore dei cugini («dobbiamo smentire tutte le falsità su di noi, vedi di collaborare con gli altri avvocati, siamo innocenti»), Ciarelli prende carta e penna e scrive al Centro. Questa volta non per dettare la linea difensiva agli avvocati suoi e dei presunti complici (legali che nel frattempo sono passati da sei a tre e che si preparano a chiedere il rito abbreviato), ma per dire, senza mai una parola di pentimento o ravvedimento riguardo all’omicidio di cui è accusato: «Non sono un mostro».

Sono tre fogli a righe in formato A4 che Ciarelli riempie quasi integralmente in stampatello il 4 dicembre, pochi giorni dopo la pubblicazione sul Centro delle sue intercettazioni. Frasi choc come quella rivolta alla madre di Rigante la mattina del riconoscimento all’americana in questura a fine giugno («Ho ucciso tuo figlio, qual è il problema?») e ammissioni come quella che fa alla mamma che lo va a trovare in carcere («È vero che ho sparato»), che la scorsa settimana avevano provocato lo sfogo addolorato di Pasquale Rigante, padre di Domenico, rimasto ucciso, e del gemello Antonio, salvo solo per lo scambio di persona. Uno sfogo in cui papà Rigante dava del vigliacco e dell’arrogante al presunto assassino ma in cui, soprattutto, gli chiedeva di assumersi le sue responsabilità. PAROLE MAI DETTE. E invece Massimo Ciarelli gli manda a dire: «Signor Pasquale Rigante, so e apprendo ciò che provate per la perdita di vostro figlio, ma io non sono un ragazzo vigliacco e arrogante, perché so rispettare le persone e il prossimo. Le parole scritte e dette a vostra moglie», scrive parlando di se stesso in terza persona, «non sono state mai dette da Massimo Ciarelli». A conferma di ciò, Ciarelli tira in ballo gli agenti di polizia penitenziaria che lo hanno accompagnato in questura la mattina del 29 giugno: «Si potrebbe chiedere agli agenti di penitenziaria che mi scortavano che io non ho mai detto una parola nei confronti di nessuno», per poi sottolineare che «non conosco neanche la signora Rigante». Quanto alle ammissioni di fronte a sua madre e ai famigliari negli incontri in carcere, sarebbero «parole inventate da un traduttore che si fa i film con la sua testa, mente e parola».

MAI PREPOTENTE. Ciarelli impiega un foglio e mezzo per ribaltare l’immagine di chi, come ricorda lui stesso, lo descrive come «assassino, killer, violento e senza scrupoli». Sempre rivolgendosi ai genitori di Rigante, scrive: «Apprendo ciò che provano una madre e un padre per la perdita di un figlio, posso anche capire le vostre parole dette con rabbia, ma non sono quello che voi pensate o dicono. Mai ho frequentato corso Manthonè facendo il prepotente. A Pescara vecchia, chi la frequentava, i titolari dei locali e i ragazzi della sicurezza mi rispettavano per la mia semplicità ed educazione, dove mi inserivo socialmente con tutti senza mai mancare di rispetto, dove mi facevo volere bene ovunque andavo». Un quadro che, scrive Ciarelli, potrebbero confermare anche «tanti ragazzi che tifano il Pescara: mi conoscono nella vera realtà, sanno che non sono come vengo descritto».

L’ATTACCO. Piuttosto, Ciarelli attacca Antonio Rigante confermando il rancore mai sopito nei confronti del gemello di Domenico con cui la sera prima dell’omicidio il rom aveva avuto una violenta lite a Pescara Vecchia. Un’umiliazione, un’onta da cancellare, come riferì lui stesso alla ballerina del night da cui corse prima di darsi alla macchia per cinque giorni dopo la sparatoria, e che per l’accusa rappresenta il movente dell’omicidio. Di fatto, un episodio che dopo più di sei mesi brucia ancora a Ciarelli al punto da fargli scrivere «Antonio Rigante ha sempre aggredito persone senza un vero motivo e ragione, come nei miei confronti, verso i rom. Forse sarà solo razzismo».

LA DIFESA. «Per il resto per cui vengo accusato», prosegue il 29enne dal carcere di Vasto, «spero di essere giudicato nel giusto e non per parole inventate trasformandomi in un mostro. L’avvocato Francesco Metta cercherà di dimostrare la verità e non la falsità di cui sono accusato, che verrà tutta smantellata».

Poi Ciarelli parla anche delle tensioni in città subito dopo l’omicidio, con centinaia di persone scese in piazza per chiedere giustizia e una marcia improvvisata a Rancitelli contro i rom (quando numerose famiglie della comunità preferirono allontanarsi da Pescara): «Gli zingari non hanno mai protestato scagliandosi contro gli ultrà, ma non per paura, perché anche loro sanno ragionare e hanno evitato di far nascere discussioni banali e forti. Ora che le cose tornano ad andare bene, basta offese da una parte all’altra, che si viva senza abusi nei nostri confronti perché noi apprendiamo e ragioniamo, ma il razzismo no».

«Ricordatevi», conclude, «che tutti sbagliano, zingaro e non zingaro. Finora rom e gaggè sono stati sempre assieme, ora si dice che tutti i rom sono criminali e i gaggè onesti: siamo tutti uguali, siamo uomini tutti e nessuno nasce con un cuore diverso».

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