Il comandante indagato per furto: «Contro di me c'è una vendetta»

12 Gennaio 2025

Il tavolo del resort preso e portato a casa: «Era solo un’intelaiatura di ferro abbandonata in un fosso fuori dall’area sequestrata»

PESCARA. Dietro all’inchiesta a carico dell’ex comandante della stazione dei carabinieri forestali di Farindola, Danilo Ambrosini, accusato del furto di un tavolo nell’area posta sotto sequestro del distrutto hotel Rigopiano, teatro di una dei più drammatici disastri degli ultimi anni (era il 18 gennaio del 2017), potrebbe esserci una piccola “vendetta” di lavoro. Lo sostiene l’avvocato Cataldo Mariano, difensore di Ambrosini. «Fin dall’inizio abbiamo sostenuto che il maresciallo Ambrosini si è impossessato non di un tavolo, ma di un’intelaiatura in ferro abbandonata in un fosso al di là del perimetro di sequestro dell’area, e per giunta lo avrebbe fatto in quanto autorizzato dalla vedova di Roberto Del Rosso (una delle 29 vittime del disastro dell’hotel spazzato via da una violentissima valanga, ndr)».

Il legale è certo della buona fede dell’indagato, ma soprattutto è pronto a querelare per calunnia la carabiniera che avrebbe denunciato il fatto alla procura di Pescara, che poi ha avviato l’inchiesta condotta dal procuratore Giuseppe Bellelli e dal sostituto Anna Benigni. «Presenterò la denuncia perché quando il maresciallo andò a prelevare quel tavolo, con lui c’era proprio la carabiniera che sapeva benissimo che quel rifiuto si trovava in quel fosso estraneo all’area sequestrata e soprattutto che la Del Rosso aveva autorizzato Ambrosini a prendere quel tavolo. Non si può impunemente distruggere la reputazione di un appartenente alle forze dell’ordine che peraltro venne anche premiato per la sua attività svolta in occasione della valanga del 2017». Tutto potrebbe essere legato, come sostiene lo stesso legale, a una valutazione personale che Ambrosini avrebbe fatto sulla carabiniera, non gradita a quest’ultima.

Il reato di peculato, che non è stato neppure contestato all’indagato, a dire della difesa sarebbe da collegare alle dichiarazioni rilasciate dalla teste chiave, della quale il legale fa nome e cognome in quanto «da fonte confidenziale», aggiunge l’avvocato, «si è palesata e il suo nome figura nelle carte della procura che ho potuto visionare. L’ipotesi di peculato verrebbe fuori dal fatto che Ambrosini avrebbe usato l’auto di servizio per trasportare quel tavolo, mentre invece utilizzò la sua vettura personale, e questo la teste lo sapeva perché era lì con lui. Il furto, lo ripeto, in questa vicenda non esiste come reato in quanto quella intelaiatura in ferro era adagiata in un fosso al di fuori dell’area sequestrata».

L’oggetto del presunto furto, i carabinieri di Penne, che indagano su delega dei magistrati pescaresi, lo rinvennero nella veranda di casa Ambrosini ed ebbero anche difficoltà a riconoscerlo perché il piano in mosaico era stato cambiato dal maresciallo in quanto scheggiato. L’ex comandante (trasferito a tempo di record all’Aquila dopo la perquisizione) era peraltro il “custode” di quell’area: era lui che aveva la responsabilità di controllare che nessuno prendesse nulla da quel luogo di morte, tanto che vi erano state installate anche delle fototrappole per identificare eventuali ladruncoli e lo stesso Ambrosini, tempo addietro, denunciò due ragazzi che volevano appropriarsi, come ricordo, di un gioco da tavolo che si trovava nell’area sequestrata.

Insomma, si tratta comunque di una brutta storia che viene fuori proprio alla vigilia dell’ottavo anniversario della tragedia e che contribuisce ad amareggiare ancor di più i familiari delle vittime che sempre, con grande dignità, hanno seguito le fasi dell’inchiesta prima e dei successivi gradi di giudizio.

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