Jennifer Sterlecchini, la 26enne uccisa dall'ex fidanzato il 2 dicembre 2016

PESCARA / L'INTERVISTA

"Jennifer? Eravamo una cosa sola. Manca tutto, anche la sua risata"

Fabiola e Jonathan, madre e fratello della ragazza uccisa dall'ex: "Voleva andare in Spagna. Lui l'ha uccisa pensando che fosse sua" 

PESCARA. Non c’è più lei, non c’è più il suo sorriso contagioso. C’è l’orribile consapevolezza che non tornerà più. Dopo oltre due anni dall’omicidio di Jennifer Sterlecchini, uccisa a 26 anni dal suo ex fidanzato, la madre Fabiola e il fratello Jonathan si raccontano.

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A poche ore dalla sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila che ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione per Davide Troilo, in una intervista congiunta madre e figlio parlano innanzitutto del grande vuoto lasciato da Jennifer quel 2 dicembre 2016, proprio quando la ragazza stava lasciando la casa che aveva condiviso con il suo ex, per ricominciare una vita da sola, in famiglia. «Più il tempo passa, più la situazione pesa, perché è difficile da accettare. Siamo forti, certo. Ma i momenti di difficoltà ci sono. A casa eravamo noi tre», dice Jonathan. «L’improvvisa scomparsa di papà ci aveva fatto stringere ancora di più, anche perché nessuno se lo aspettava. Poi è venuta a mancare Jennifer. E in che modo è venuta a mancare».
La giovane era legatissima a sua madre e con lei «condivideva anche tanti momenti nella quotidianità», dallo shopping al parrucchiere. «Ora ci manca sentirla, sappiamo che non chiama e non chiamerà. Che non sentiremo la sua risata, di fronte alla quale non si poteva resistere. Aveva il potere di farti ridere».

Jennifer, il fratello Jonathan e la madre Fabiola
Che sogni aveva Jennifer?
Aveva trovato lavoro in un negozio di scarpe, e si trovava benissimo. Voleva mettere da parte il denaro per andare a vivere in Spagna: conosceva benissimo lo spagnolo e con il suo ex ragazzo l’aveva girata in lungo e in largo. E aveva il desiderio enorme di fare una esperienza in Spagna.
Com’è stata l’attesa della sentenza, in Corte d’Appello?
Era come se lei ci fosse. C’era un’aria particolare rispetto all’altra volta. Dopo l’arringa del pm ho guardato tutti (dice Jonathan, ndr), e mi è balenata per la testa l’idea che ce l’avremmo potuta fare, che sarebbe stata confermata la pena. Poi speravo di carpire qualcosa dal volto dei giudici. Al momento del verdetto guardavo lui, ma ha tenuto gli occhi bassi. Volevo vedere se aveva il coraggio di guardarmi e volevo capire se si è pentito. Non mi ha guardato, ma per un attimo ha incrociato lo sguardo di mia madre. Averlo a un metro di distanza fa un certo effetto, sì. Fa rabbia, sì, credo sia normale. Magari vorrei parlarci, ma non so bene cosa direi. Vorrei solo capire attraverso i suoi occhi se si è pentito, anche se non ha l’aria di chi si è pentito. In aula, poi, hanno fatto entrare tutti, per il verdetto, anche se doveva essere a porte chiuse. E abbiamo sentito un clima di vicinanza, di affetto.

Jonathan e la madre durante la lettura della sentenza di primo grado

Avete capito perché Jennifer è stata uccisa?
Lui non accettava che andasse via, la immaginava come sua. Ma non era più sua, non poteva averla più, e l’ha uccisa. Non avremmo mai immaginato che potesse usare tutta questa violenza nei confronti di Jennifer. E poco conta che non avesse precedenti.
Dopo tanti mesi, ci si può abituare alla sua assenza?
No, è impossibile.
Se ora Jennifer fosse qui?
Starebbe ridendo, sicuramente. E guardando come va il mondo di oggi, pensiamo che sta sicuramente meglio di noi. La immagino sempre insieme a mio padre (dice Jonathan ndr) mentre ascoltano musica, che è una prerogativa della nostra famiglia.
C’è spazio per il perdono?
No, un atto del genere non è perdonabile. Nessuno ci leva dalla testa che sia stato un atto premeditato. Lui è stato violento e lucido. Non è stato uno sfogo. Prima l’ha massacrata di botte e poi l’ha accoltellata 17 volte. E 4 – 5 fendenti hanno lasciato il livido, tanto sono stati violenti. Una persona così non la puoi perdonare, mai.
Le scuse sono arrivate?
No, non sono mai arrivate, a parte una lettera che è stata letta in aula a cui non diamo troppo peso. Mai nessuno ha chiesto scusa. E ora sembrerebbe tardivo farlo. Noi avremmo reagito in maniera diversa.
Voi andate nelle scuole, all’università, in tv a raccontare la storia di Jennifer, la vostra storia. Che messaggi portate?
Andiamo nonostante sia atroce ripercorrere tutto, raccontare ogni volta quello che è successo. Ma noi ci siamo concentrati su questo. Cerchiamo di fare qualcosa a livello sociale. Portiamo la testimonianza di due persone che non hanno avuto proprio una vita felice, raccontiamo il nostro dolore, parliamo delle conseguenze della violenza e anche del bullismo. Ma quello che diciamo non è esclusivamente la nostra testimonianza, perché quello che è successo non ha rovinato solo noi ma ha segnato i nostri parenti, tutti gli amici, e anche i parenti dell’assassino. Andare nelle scuole, testimoniare, è dura, ma è anche la cosa più bella.
In questi oltre due anni avete ricevuto molte testimonianze di affetto, basti vedere la partecipazione alle manifestazioni organizzate per Jennifer e tutti i messaggi arrivati due giorni fa.
Sì, è così. Ci sono delle persone (racconta Jonathan ndr) che mi scrivono per ringraziarmi. “Se con la tua storia riesci a sorridere e ad andare avanti, dai la forza anche a me per farlo”, mi dice chi ha qualche problema. E questo dà la forza anche a me per andare avanti, perché è come se fossi un modello per qualcuno. Ma non sempre mi sento così, no. Ci sono dei momento in cui mi dico: “E adesso che faccio?” Ma la mia vita la voglio portare avanti, perché è il dono più bello. Non sempre ci sentiamo forti. Eppure, pensandoci bene, solo le persone forti possono affrontare quello che abbiamo affrontato noi due.
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