Rikers Island, l’isoletta-penitenziario in cui è rinchiuso il killer di Rita Morelli

13 Gennaio 2013

Code, perquisizioni e un viaggio in autobus per arrivare al carcere in cui è detenuto Bakary Camara, il 42enne condannato per l’omiciodio della ragazza di Spoltore

NEW YORK. Sono le 7 e 10 di un giovedì mattina, giorno di visite al carcere del Bronx dove è rinchiuso Bakary Camara in attesa di trasferimento definitivo a un carcere di massima sicurezza. Rikers Island è un’isoletta-penitenziario a cui si accede in un modo solo: con l’autobus M101 che passando un ponte porta in una fermata all’ingresso del carcere.

Lascio l’auto al posteggio incustodito appena prima del ponte. Infreddolito mi metto in coda coi parenti di altri detenuti, per lo più donne nere o ispaniche, alcune con bambini o figli adolescenti. Pochi gli uomini e ancora meno i bianchi. Prima ancora di passare il primo metal detector ci sono armadietti a pagamento dove custodire oggetti proibiti - cellulare, portafogli, chiavi, oggetti metallici. Il passo successivo è la registrazione: cinque stanzette separate da paratie di vetro, ognuna delle quali rappresenta un’ala differente del carcere. Sono in coda nell’area numero 4. “Lei chi desidera visitare?”, mi chiede un poliziotto prima di mettere in computer le mie generalità, prendere le impronte digitali, fotografarmi e consegnarmi un cartoncino bianco con barre da prodotto del supermarket che da quel momento diventa il mio codice di riconoscimento all’interno di Rikers Island. Siamo una quindicina di persone e attendiamo l’autobus che ci porterà nella zona delle visite.

Tutti nuovamente in fila quando lo scalcagnato bus giallo si ferma davanti alla porticina posteriore dell’area 4. Nuovo controllo del cartoncino barrato per poi salire a bordo e dopo qualche minuto passare una cancellata intorno alla quale c’è un’alta grata con tanto di filo spinato. Giù dal bus e in coda per verificare un’altra volta che a ogni visitatore corrisponda un cartoncino bianco. Via nuovamente scarpe, cintura e cappotto per un secondo metal detector, al di là del quale c’è uno stanzone dove ci viene data disposizione di mettere negli armadietti non soltanto qualsiasi oggetto ci sia rimasto in tasca ma anche gli indumenti extra. Quando si incontra un detenuto infatti si può avere addosso uno strato solo: camicia o maglia. Una misura per evitare che indumenti “da strada” in qualche modo finiscano nelle mani di detenuti che meditano la fuga.

Altra coda, questa volta per una perquisizione manuale. Una donna-poliziotto mi tocca da cima a fondo tirandomi fuori dalla tasca posteriore un foglietto con su scritte alcune domande per Camara. Non è permesso neppure un pezzetto di carta. Niente matita, niente penna, niente blocco per gli appunti. Si passa poi un terzo metal detector nell’ipotesi che i due precedenti avessero mancato di identificare oggetti metallici proibiti.

Eccoci in un’altro stanzone. A uno a uno chiamano i nomi dei detenuti che hanno visite e ci mettono in fila lungo la parete prima di aprire un pesante cancello metallico e accedere al salone delle visite. Sto per incontrare un assassino e mi immagino che l’incontro - come nei film - avvenga dietro a un vetro spesso mentre comunichiamo via telefono.

“Si sieda al tavolo 24”, mi dice invece il poliziotto indicando due seggiole di plastica rossa separate da un tavolino rotondo come fossimo al bar in piazza. Intorno a me decine di visitatori e di detenuti. Questi ultimi in divisa grigia con ciabatte ai piedi sono tutti seduti guardando nella stessa direzione. I visitatori siedono guardando nella direzione opposta.

Passano un paio di minuti e Bakary Camara entra da una porta alla mia destra. So che faccia abbia perchè l’ho visto molte volte in tribunale, lui non ha idea di chi sia il visitatore venuto a trovarlo. Mi alzo e lui si avvicina con espressione incuriosita. Temo che se gli dico che sono un giornalista se ne vada facendo sfumare la speranza di intervistarlo. “Sono amico di Seema Iyer”, gli dico esagerando sul cordiale rapporto professionale che ho stabilito con la sua avvocatessa. “Sono italiano e sono qui perchè vorrei scrivere la storia di Rita e ci tengo a sentire il suo punto di vista”.

Dico queste parole guardandolo fisso negli occhi e stringendogli la mano per cercare di conquistare la sua fiducia in quei quindici secondi preziosi durante i quali deve decidere se andarsene o sedersi. Mi guarda, esita e poi si siede. Io tiro un sospiro di sollievo.

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