Andrea Carnevale, dal dramma ai trionfi: «Mio padre uccise mamma, il calcio mi ha salvato la vita»

Dalla tragedia al mondo dorato del pallone, ecco la biografia dell’ex bomber di Napoli, Roma, Pescara e Udinese: “Portai il sangue di mia madre ai carabinieri, basta femminicidi e violenza”
Andrea Carnevale, sulle note di Tanti Auguri della Carrà, canticchiamo questo ritornello: “Quant’è forte Carnevale dalla testa in giù. Con la palla tra i piedi non lo fermi più. Carnevale, bum. Carnevale facci un gol”.
Che ricordo ha?
«Il coro che mi hanno dedicato i tifosi del Pescara nei miei due anni in Abruzzo. Città travolgente, elettrica, con gente passionale. Ricordo il mare, il buon cibo, il tifo e la passione per il calcio. Ho dei ricordi bellissimi». Ex bomber di Napoli, Roma, Udinese e Pescara. Ha vinto scudetti, Coppe, partecipato ai Mondiali del 1990. Oggi, però, non parliamo solo di calcio.
Venerdì 25 aprile uscirà il suo libro “Il destino di un bomber”. La sua vita racchiusa in poco più di 150 pagine: da sua madre che viene uccisa 50 anni fa a colpi d’ascia da suo padre, passando per le sue vittorie fino al ritiro dal calcio.
Come hai ha deciso di raccontarsi solo adesso?
«Un anno fa ho deciso di raccontare la mia storia in una intervista e da lì è iniziato tutto. Mi sono detto: voglio fare qualcosa affinché non accadano più degli orrori simili. Grazie anche all'associazione Telefono Donna, di cui oggi sono testimonial, ho trovato la forza e la capacità di rialzarmi e ripartire. Per me è stata una rinascita, ora mi sento un uomo libero».
Che cosa si sente di dire a tutte le donne che subiscono violenza dentro e fuori le mura domestiche?
«Denunciate e chiedete aiuto».
Lei ha denunciato più volte le violenze in casa sua, però, purtroppo, non è servito a molto. E lo racconta molto bene nel suo libro.
«È vero. A 14 anni non potevo più assistere alle atrocità che vedevo ogni giorno in casa e sono andato dai carabinieri, che mi hanno detto che non avrebbero potuto far nulla finché non avrebbero visto il sangue. Il giorno che mia madre è morta sono tornato da loro e gli ho detto: "Ecco qua, il sangue che volevate di mia madre". Mettendolo dentro un barattolo. Tutto si sarebbe potuto evitare».
Che cosa ricorda della sua famiglia?
«A casa c'era sempre un clima di terrore, perché da un momento all'altro papà diventava violento, soprattutto verso mia mamma, che subiva questi scatti d'ira. Per anni mia madre ha preso schiaffi e botte davanti a noi. Mio padre si era fissato con l'idea che lei lo tradisse, una pazzia che si verifica anche oggi».
E poi arriva quel tragico 25 settembre del 1975.
«Quella mattina mio padre si è svegliato, ha preso l'accetta ed è andato ad ammazzare mia madre mentre stava lavando i panni al fiume vicino casa. Io ero poco distante a giocare a pallone con dei miei amici. Mia sorella Giuseppina è venuta ad avvisarmi. Io sono corso sul luogo del delitto, ho raccolto il sangue di mia mamma nel fiume, l'ho portato in caserma e al maresciallo ho detto: 'Hai visto che poi è successo? Adesso il sangue lo vedi?»
Suo padre era malato?
«Sì, era schizofrenico. Mio padre era un uomo malato che non è stato curato e qualche anno dopo si è suicidato lanciandosi da una finestra davanti ai miei occhi».
Nel 2024 i numeri riguardanti i femminicidi sono stati altissimi. Lo sa?
«È tremendo quello che sento negli ultimi tempi e non capisco come possa succedere. Per questo motivo mi sono messo in prima linea. È giusto divulgare, voglio aiutare a far sì che cose del genere non si ripetano e fare sensibilizzazione».
Lei ha due figlie, da padre, ma anche da nonno, che cosa si sente di dire?
«Alle mie figlie dico sempre: la prima volta che un fidanzato o un marito alza una mano su di voi, dovete lasciarlo. Alla seconda non ci dovete arrivare, perché quello lo rifarà, sicuro al cento per cento».
Le istituzioni e la politica stanno facendo abbastanza per evitare certe tragedie?
«Ho molto rispetto per le istituzioni, ma nel mio caso nonostante le continue denunce nulla fu fatto. Quando andavo dai carabinieri per denunciare, loro mi rispondevano che se non avessero visto il sangue non potevano intervenire. Spero che questo non accada più. Mai più».
Che cosa si potrebbe fare?
«Inasprire le pene, sicuramente. Non basta il braccialetto elettronico, c’è bisogno anche dell’aiuto del personale adatto, come gli assistenti sociali».
Da quel terribile giorno, poi, è cambiato tutto. Bambino povero, orfano, destinato a fare il muratore. Un ragazzino che, dopo sei chilometri di bicicletta, andava a lavorare dal fabbro o in segheria.
«Io devo ringraziare il pallone e il campo da calcio vicino a casa. È stata quella la mia scuola. Mi dispiace dirlo, se penso che qualche ragazzo leggerà questa intervista, ma è la verità: il pallone era il mio futuro. Oggi mi sento ancora un ragazzino e mi ritengo un uomo fortunato, fortunatissimo».
Quando ha capito di avercela fatta?
«Una data: 10 maggio 1987. Il giorno in cui ho vinto lo scudetto con il Napoli».
Ha vinto tanto, ma è andato diverse volte al tappeto, come il caso di doping o l’arresto per spaccio di cocaina.
«Sono sempre stato bastonato, aggiungo ingiustamente, però mi sono sempre rialzato. Per il caso di doping (ottobre 1990) fu colpa mia, me ne assumo la responsabilità. Ero alla Roma (5 gol nelle prime 4 partite, ndr) quando mi dissero del doping caddi dalle nuvole. Dalla Federazione mi rassicurarono: ‘Prenderai uno o due mesi di squalifica’, anche perché la quantità era irrisoria, zero virgola. Invece, mi diedero un anno, una mazzata. Fui squalificato per l’assunzione di uno stimolante, la fentermina, presente nel Lipopil, che si prendeva anche per perdere peso. Da quel momento in Italia l’antidoping è stato molto più rigoroso. E ci sono andato di mezzo io».
Però, le perquisirono casa, ci fu il processo penale e fu assolto.
«Esatto, come è successo poi qualche anno dopo».
Arriviamo al 2002: l’arresto con l’accusa di detenzione e spaccio di cocaina, anche in questo caso assolto. Che cosa successe?
«Una telefonata che non dovevo fare, un millantatore che mi accusò, la mia solita ingenuità. Ma figuriamoci se mi mettevo a spacciare droga. Un periodo tremendo: un mese ai domiciliari, anni di processi. Volevo liberarmi e dissi al mio avvocato: ‘Perché non patteggiamo?’. ‘No, caro Andrea, non hai fatto niente, devi uscire innocente dal tribunale’. Aveva ragione: fui assolto. Devo ringraziare lui e la famiglia Pozzo, che in un momento di grande dolore mi ha chiamato e mi ha voluto all’Udinese: la mia salvezza, una gioia che forse non si può comprendere. È stato come rinascere, perché mi ero perso e avevo perso una famiglia (la conduttrice Paola Perego, con la quale è stato sposato dal 1990 al 1997, ndr)».
Crede nella giustizia?
«Vedendo quello che mi è accaduto… direi di no. In alcuni casi c’è stata superficialità, però è giusto crederci».
Passiamo al campo. Se le dico Diego?
«Maradona. Il più forte di tutti i tempi, con il quale ho avuto la fortuna di giocare e vincere per tanti anni al Napoli. Lo vedevo ogni giorno, eravamo compagni, eppure ogni volta avevo la tremarella, perché Diego era immenso. Ci siamo voluti un bene pazzesco, quasi come marito e moglie. Rapporto simbiotico. Quando tornava in Italia ci vedevamo sempre. Nel libro racconto un bellissimo aneddoto del carnevale di Rio con lui. Stava per far saltare il suo contratto come testimonial per me. Basta per far capire la grandezza dell’uomo».
Dopo i successi con Roma e Napoli, nel 1993 arriva a Pescara, dove gioca due stagioni in serie B prima del ritiro. Ricordi?
«È stata la città della mia rinascita. Quando ho messo piede a Pescara per la prima volta mi sono elettrizzato e ingiovanito. Pescara è una piccola Napoli. La gente passionale, il mare, il buon cibo, il tifo e il coro che mi cantavano dalla curva nord. Il primo anno feci tanti gol, ricordi bellissimi. Il presidente Pietro Scibilia, un vero signore. Ricordo che andai a trovarlo per la prima volta da lui in azienda e lo trovai su un trattorino a lavorare. Pazzesco. Andavo a trovarlo in azienda alla Gis, a Giulianova, mi regalava chili di gelati che produceva. Uomo d’altri tempi. Poi ricordo Dario Di Giannatale, ragazzo straordinario che giocava con me, ma anche un giovanissimo Morgan De Sanctis».
Però con uno degli allenatori che ha avuto non furono rapporti idilliaci.
«Diciamo che con Franco Oddo all’inizio il rapporto non fu dei migliori, è vero, ma poi con il tempo mi sono chiarito con lui. Ho molto rispetto del mister». Ci fu un episodio in particolare, vero? «Si, ma è scritto nel libro. Leggetelo (sorride, poi torna serio, ndr). Però, voglio dire una cosa».
Prego.
«Ho deciso di scrivere la mia biografia perché mi rendo conto che raccontare l’esperienza personale può aiutare le nuove generazioni. L’ho fatto senza prendere un centesimo e non ho intenzione di lucrarci. Voglio solo essere d’aiuto a chi ne ha bisogno».
La sua storia potrebbe finire anche sul piccolo schermo?
«Non lo escludo e mi piacerebbe che diventasse un film». Il destino di un bomber è la testimonianza autentica della vita di Andrea Carnevale, per chi lo ha amato e per chi ancora non lo ha conosciu