NERETO
Elvira Masi: il tempo è fermo dal massacro dei miei genitori
La figlia dell’avvocato e della moglie uccisi nel 2005 a colpi di machete nella loro villa: «Questa giustizia non è stata in grado di restituire dignità a mio padre e a mia madre»
NERETO. La ragazza di 13 anni fa è diventata una donna dallo sguardo fiero e dal sorriso che riempie ogni vuoto. Elvira Masi racconta senza invettive al cielo, senza giudizi verso gli altri. Neppure quelli che non hanno voluto vedere.
Perché alla fine il tempo ha vinto sulla giustizia in questa storia da incubo che resta l’omicidio di suo padre e di sua madre: l’avvocato Libero Masi e la moglie Emanuela Chelli, entrambi 57enni, massacrati a colpi di machete nella loro villa di Nereto nella notte tra il 1° e il 2 giugno del 2005. Tante domande senza risposte e nessun colpevole negli atti di un’indagine chiusa e riaperta due volte. Fino all’archiviazione definitiva del 2010. Con i silenzi a scandire per sempre le vite di chi non c’è più e quelle di chi resta. Per ricordare senza mai rassegnarsi «ma con la consapevolezza che la giustizia è fatta di persone che non sono infallibili». Lo sa bene Elvira che dopo la laurea in lettere moderne ha scelto un lavoro che la descrive più di tante parole: operatrice nel centro di salute mentale di Pescara nord, impegnata con il teatro sociale a raccontare «le complesse fragilità di tutti noi». Con lo stesso carattere, forza e determinazione che in questi anni lei e suo fratello Alessandro hanno messo insieme per chiedere, senza mai urlare, che il moto del tempo non cancellasse quella notte di orrore nella casa di via Lenin, l’antica villa di nel cuore di Nereto. Insieme, con a fianco sempre l’avvocato Florindo Tribotti, uno di famiglia, cresciuto nello studio di Libero Masi. In quei locali al numero civico 108 di Nereto in cui tutto continua a parlare di “Lillo”: la targa in ceramica con il suo nome sul portone, il vecchio maglione rimasto appeso dove l’avvocato lo aveva lasciato la sera del 31 maggio 2005, la sua borsa, la foto di lui giovanissimo ad una partita di pallone, le lettere della mamma, gli appunti di lavoro e quelli per gli amici di uno Slow Food che lui aveva portato nella sua Vibrata consapevole della necessità di scoprire e tutelare.
Come si impara a convivere con uno squarcio così profondo della propria esistenza?
«E’ una situazione cristallizzata, immobile nel tempo. Da parte mia e di mio fratello non c’è mai stata rabbia, ma una grande e profonda necessità di capire il perché di una cosa così. Personalmente ho sempre pensato che se fossimo stati in un altro posto, in una città diversa, più grande, la procedura scattata sin dall’inizio sarebbe stata profondamente diversa. Più efficace, più diretta. Forse alla fine non saremmo riusciti lo stesso a scoprire una verità, ma sicuramente avremmo avuto una possibilità in più di saperla. Noi questa possibilità non l’abbiamo avuta».
Le ipotesi fatte durante le indagini sono state tante: dalla pista greca a quella svizzera, dalla vendetta professionale a quella personale. Lei in tutti questi anni che idea si è fatta?
«Sono convinta che non ci sia mai stato niente di oscuro, che sia una cosa molto più semplice e facile da scoprire di quella che poteva essere immaginata in quei primi momenti e anche dopo. Leggendo e rileggendo gli atti mi sono convinta che ci siano state delle mancanze e che la giustizia non sia stata in grado di restituire dignità ai miei genitori, due persone solari, amate e stimate da tutti in paese e fuori, che non avevano nulla da nascondere della loro esistenza privata e professionale. Mio padre e mia madre ci hanno sempre insegnato a stare alla luce del sole e mai nell’oscurità, ad aprirci verso il mondo e mai a chiuderci. E questo abbiamo fatto e continuiamo a fare senza mai dimenticare i loro insegnamenti».
C’è stato un momento esatto in cui lei e suo fratello avete cominciato a pensare che nulla sarebbe accaduto e che l’assassino o gli assassini dei vostri genitori non avrebbero mai avuto un volto?
«Dopo il primo anno, un anno che per noi è stato veramente molto difficile, io e mio fratello abbiamo cominciato a pensare che forse la verità non l’avremmo mai saputa. Ma i nostri genitori ci hanno insegnato a non arrenderci mai e noi abbiamo continuano a chiedere di capire, abbiamo chiesto che ci fossero altre indagini. Noi ci abbiamo sperato e creduto fino alla fine. Poi abbiamo smesso di crederci. Perché ad un certo punto abbiamo capito che l’inchiesta non sarebbe giunta da nessuna parte».
Quella mattina di 13 anni fa come ha saputo dell’omicidio dei suoi genitori?
«In quei giorni ero in Olanda per motivi di studio. Ricordo che mi chiamò un’amica per chiedere a me quello che era successo dopo averlo sentito in televisione. Ricordo che mi lesse anche qualcosa. Pensai: è assurdo, non può essere capitato a noi. Mi sembrava una cosa non reale. Poi ho parlato con mio fratello che all’epoca studiava a Roma e che quindi era subito tornato, e con uno zio. Una volta salita sull’aereo che mi riportava in Italia ho cominciato a pensare ai perché. Perché una cosa così a mamma e papà? E poi un pensiero fisso che da quel viaggio non mi ha più abbandonata: non avrei sentito più il profumo di mia madre e non avrei più potuto provare la gioia di sentire le mani di mio padre sulle mie».
Quali sono gli ultimi ricordi che ha di sua madre e suo padre?
«In quel periodo io studiavo a Firenze e quindi stavo poco a Nereto. Ma tutte le volte che partivo o tornavo mia madre mi salutava dalle scale di casa e questa sua immagine mi accompagnerà per sempre. Poi l’abbraccio di mio padre, il forte abbraccio di mio padre».
La villa di famiglia, quella del delitto, è chiusa da tempo. Lei e suo fratello cosa vorreste farne?
«I progetti sono tanti ma, vista l’età, è un edificio che necessita di tanti interventi. La vorremmo trasformare in un centro diurno o comunque in uno spazio aggregativo aperto. Perché la casa di mio padre e di mia madre è sempre stata una casa aperta agli amici, agli altri. I miei genitori hanno sempre creduto molto nel valore dell’aggregazione e della socializzazione».
Suo padre era un uomo di diritto. Cosa avrebbe detto dell’epilogo di questa vicenda?
«Che la giustizia è gestita da esseri umani che possono sbagliare perché nessuno è infallibile».
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