Dall'Abruzzo al Marocco, in viaggio coi braccianti che tornano in patria
Ci sono immigrati in arrivo e altri che lasciano l'Italia, anche se pronti a tornare tra un paio di mesi. Sono i braccianti marocchini che hanno lavorato nei campi del Fucino durante la stagione di raccolta. Dodici ore al giorno chini a raccogliere prodotti agricoli non spengono il desiderio di tornare a casa malgrado due giorni e mezzo di viaggio. Un nostro giornalista ha viaggiato con loro fino Marrakech su un mezzo vecchio e col rischio, continuo, di trovarsi immischiati in traffici di droga o altro
«La nostra terra è la nostra madre e l'Italia la nostra moglie. Una moglie la scegli, ma la mamma è sempre la mamma: nessuno ti vuole bene come la mamma». Hassan El Aatmani si prepara a tornare a casa. Chiuderà per qualche tempo il “bar Marrakech”, sistemato in un vicolo secondario di Luco dei Marsi per far ritorno alla sua Marrakech, quella vera. Quella città dalle mille e una notte la cui Medina è un labirinto di colori, sapori e odori che ti restano dentro. Hassan, 33 anni, viaggia per qualcosa come 3.000 chilometri, attraverso la Francia e la Spagna, in compagnia di venditori e braccianti stagionali i cui contratti scadono proprio in questi giorni. Chi va in Marocco in autobus lo fa per trasportare merci, beni di prima necessità, ma anche oggetti decorativi da rivendere o condividere. Oppure se ha qualcosa da nascondere.
Sul bus viaggiano bagagli, persone e storie che sanno di terra. Chi vi sale si lascia alle spalle giornate da 12 ore di lavoro sui campi del Fucino, al caldo, al freddo e nel fango. « Usciamo la mattina all'alba e rientriamo dopo che il sole è calato. Quando ci vedi tutti con impermeabili verdi è impossibile distinguerci: Mohammed è uguale a Ibrahim e via dicendo», spiegano tra i tavoli del bar. Non è facile raccogliere testimonianze. Da queste parti se parli ti buttano fuori. Qualche anno fa mi è capitato di fare un’inchiesta per raccontare le condizioni di lavoro tra le squadre di braccianti che raccolgono i finocchi. Risultato? All’indomani della pubblicazione tutte le persone che erano in squadra con me sono state identificate dai datori di lavoro e poi licenziate. È stato anche questo a spingermi a salire su un bus per immigrati, direzione Marrakech.
Il viaggio. Due giorni e mezzo, 60 ore di cui 46 in un mezzo vecchio e freddo dove la notte puoi solo sperare che ti venga sonno, visto che le luci vengono spente per tutti. Le fermate programmate sono tutte in Italia, tra Firenze, Viareggio, La Spezia e Genova. Una volta passato il confine ci si ferma solo per rispettare le prescrizioni di legge: ogni 4 ore. Oppure perché è l'ora della preghiera del mattino: alle 5 in punto. Il pullman non è pienissimo. Molti lo usano solo per trasportare cartoni e valigie e si presentano alla fermata muniti di passaporto.
Merce e pericoli. Gli autisti non caricano tutto, consapevoli di avere la responsabilità totale di quello che trasportano una volta arrivati a Tanger, alla frontiera di ingresso in Marocco. «Il mese scorso», mi fa Mohammed, ex trasportatore ora impegnato nell’import/export, «un autista è stato arrestato perché gli hanno trovato dell'hashish in una valigia che il bus trasportava». Vorrei sapere qualcosa di più. «Tu fai troppe domande, amico». Percepisco la sua diffidenza, del resto sul bus c'è gente di tutti i tipi. Anche un tale – in Italia si chiamare Mario – che dice di avere in curriculum un paio di anni come produttore di marijuana. «Lavoravo dalle parti di Fez», spiega con un aplomb invidiabile. «Niente spaccio, solo produzione. Il nostro percorso per arrivare a “lavoro” era a rischio, ma ce la siamo sempre cavata: la polizia non conosceva tutte le nostre vie di accesso. Così come noi non avevamo la minima idea di come le droghe venivano smistate». Ora ha cambiato piante, si occupa di fiori a San Remo. Tutt’altro business porta avanti Mohammed che a bordo ha caricato di tutto: giocattoli, biciclette, posate, utensili da cucina, una chitarra acustica e una mazza da baseball. Tutta roba che trasportare in aereo sarebbe complicato.Controlli altrattrettanto severi alla frontiera tra Francia e Spagna, con quasi tutti i veicoli fermati.
I controlli. Il mio arabo non va oltre un paio di frasette e non posso andare avanti a suon di “Shukran”, “Habib” e “Shewaia shewaia”. Tante cose che si dicono sul bus non le capisco neanche e a volte pure andare in bagno è complicato. L’unica cosa da fare è farmi adottare temporaneamente dalla signora Nayma Kariati, l’unica donna a bordo, ex dipendente delle Ferrovie dello stato, si fermerà a Casablanca. «Mio figlio Andrea ha lavorato come volontario nel terremoto dell’Aquila», racconta. Il suo intervento mi toglie dall’imbarazzo di accettare di passare la dogana di Tanger, subito dopo il traghetto dall'Andalusia, con una valigia non mia. «Sei pazzo? Non si sa mai che responsabilità ti vai a prendere, vuoi essere arrestato?». Ha tantissima roba al seguito e ha approfittato dei bazar marocchini nelle stazioni di servizio spagnole per prendere foulard o coperte. Vorrebbe che la seguissi a Casablanca per farmi conoscere suo marito, ma ho ansia di arrivare a Marrakech: superiamo El Borouj e Cala e i monti dell’Atlante appaiono sullo sfondo.
L’arrivo è proiettato nella incredibile piazza di Jamaa el Fna, tra artisti di strada, incantatori di serpenti, musicisti, ragazzini che si prendono a cazzotti per racimolare qualche spicciolo. Da qui che parte il labirinto della Medina, carico di bazar. Giovani in strada mi fermano per vendermi di tutto, lecito e non lecito. Questa gente, quando non ha niente da vendere diventa essa stessa il prodotto: la prostituzione è molto diffusa con buona pace dell’Islam. È la povertà a fare la morale.
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