Dalla miniera-trappola all’Europa
Bois du Cazier, è nata qui l’identità di un continente
Non potevano entrare nei bar, né provare ad affacciarsi nei pochi cinema o luoghi di spettacolo pubblico. Dovevano restare nei campi a loro riservati. Trattati come dei prigionieri. Nella regione carbonifera del Belgio, un’area che comprendeva cinque bacini di scavo, dove trovavano lavoro 25 mila minatori, i contadini, gli artigiani e i pastori abruzzesi c’erano arrivati sulla base di un accordo tra Stati.
Nella primavera del 1946 il capo del governo italiano Alcide De Gasperi e il primo ministro belga Van Acker siglano un accordo. L’Italia si impegna ad inviare mille minatori al mese in Belgio. Ottenendo in cambio la possibilità di acquistare ad un prezzo prestabilito 200 chili di carbone al giorno per ogni italiano inviato in Belgio. Era un’Italia in ginocchio quella che siglò l’accordo. Un Paese che aveva perso una guerra. E che era trattato con diffidenza dai vincitori-alleati. Un Paese alla disperata ricerca di materie prime per far ripartire la sua industria. Le sue centrali. Un Paese che non aveva altro da esportare se non uomini. Braccia di giovani disperati. Spesso reduci da anni nei campi di prigionia.
O padri di famiglia alla ricerca di un’opportunità per guardare con un pizzico di fiducia al futuro della propria famiglia. L’Abruzzo di quel dopoguerra condivideva con la Calabria e la Basilicata una spaventosa situazione sociale. Niente lavoro. Zero infrastrutture. Settori importanti della sua economia al collasso. La pastorizia con la guerra aveva avuto il suo colpo di grazia. L’agricoltura scontava ritardi atavici.
La regione non aveva una prospettiva di ripresa. Era stata esclusa persino dai piani di ricostruzione, che andavano sotto il nome del generale americano che li aveva pensati: Marshal. In quella primavera del 1946, il manifesto della Federazione delle miniere belghe, che era stato affisso nei comuni, a moltissimi giovani disoccupati apparve come una manna. L’occasione tanto attesa per lasciarsi alle spalle miseria e umiliazioni. Quasi nessuno tra coloro che partiva per il Belgio aveva un’idea di cosa fosse una miniera.
Di quali condizioni di lavoro avrebbe trovato. Di come avrebbe vissuto. Partirono con l’entusiasmo di chi fugge dalla povertà. Furono quasi cinquantamila. Moltissimi di loro non tornarono. Dal 1946 al 1963, periodo di durata dell’accoro “uomo-carbone”, nel bacino carbonifero di Charleroi morirono 867 minatori italiani per incidenti. Altre migliaia persero la vita, negli anni successivi, a causa degli effetti devastanti sulla salute provocati della polvere di carbone. Polvere che avevano respirato sotto le gallerie anche per dieci ore al giorno.
La silicosi divenne una malattia tristemente diffusa. I minatori prima della tragedia di Marcinelle scendevano in fondo alle miniere con una piccozza, un casco e una lampada. Nessuno aveva aveva maschere. Per difendere i polmoni dalla polvere si coprivano la bocca e il naso con un semplice fazzoletto. Le norme di sicurezza erano inesistenti. La vita di migliaia di persone affidata al caso. Non c’erano vie di fuga nei cinque livelli della miniera di Bois Du Cazier. Le porte per fermare il fuoco erano di legno, così stagionato da finire presto per alimentare le fiamme.
Il pozzo numero 1, dove l’incendio divampò, serviva anche per il passaggio dell’impianto di aerazione dell’intera miniera. Così, in pochi minuti, tutte le gallerie divennero un’immensa camera a gas. Non c’era un pozzo di salvataggio. E gli altri divennero subito inservibili. Il calore dell’incendio nel pozzo 1 dopo più di un’ora aveva fuso le corde d’acciaio dei montacarichi. Una trappola mortale per 262 persone. La vita degli uomini nelle miniera non valeva un granché. La tragedia di Marcinelle portò agli occhi del mondo una tremenda realtà. I governanti europei a dieci anni dalla fine della guerra dovettero fare i conti con quell’incendio a 970 metri sotto terra. Carlo Azeglio Ciampi, il 17 ottobre del 2002 visitò la miniera-sacrario del lavoro italiano all’estero. Davanti agli scampati e alle loro famiglie sostenne con forza la tesi dell’incidente di Marcinelle come elemento fondante di una coscienza europea «Per la prima volta, è bene ricordarlo» disse in quell’occasione Ciampi, «a una tragedia europea fu data una risposta europea.
La ricostruzione delle cause del disastro, oggetto di una minuziosa inchiesta, indussero l’Alta Autorità della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la Ceca, prima delle istituzioni europee, a convocare una conferenza le cui conclusioni modificarono, e migliorarono radicalmente, le condizioni di lavoro in tutte le miniere dell’Europa comunitaria, e la sicurezza dei minatori. Ho richiamato questi ricordi per dare concretezza alla rievocazione di un momento della nostra storia che oggi ci appare molto lontano, tanto lontano. Quella era un’altra Europa, un altro Belgio, un’altra Italia». E aggiunse: «E’ stato detto che la tragedia di Marcinelle fece di più, per la formazione di una coscienza europea, di quello che fecero tutti i trattati firmati in quegli anni».
A distanza di cinquant’anni da quella tragedia è difficile dire se questa lettura di quegli eventi potrà consolare le famiglie. Una cosa di certo si può dire. Quegli uomini hanno dato un contributo impagabile al loro Paese. Con il loro sacrificio hanno contribuito a rimettere in piedi un Paese uscito malconcio dalla guerra. I 136 morti di Marcinelle hanno costretto l’Europa a fare definitivamente i conti con le diffidenze e il velo di razzismo che c’era nei confronti degli italiani. In Belgio, come in Svizzera. In Germania come in Inghilterra. Dopo Marcinelle nessuno poté più chiamare “Machaques” i figli dei minatori italiani, senza provare una grande vergogna. Quel nomignolo preso in prestito da una razza di scimmie sparì, insieme ai cartelli nei bar che vietavano l’ingresso agli italiani. Sparirono i recinti tutt’intorno alle baracche di lamiera dove alloggiavano i minatori e le loro famiglie.
Dopo quella tragedia, gli italiani all’estero ottennero di colpo una sorta di cittadinanza europea. Uomini e donne che hanno lavorato e lavorano lavorano, con coraggio, onesta e per i più fortunati con successo. Oggi, oltre che il ricordo di quella tragedia, ci resta una comunità italiana in Belgio che oggi contra 300 mila persone. Una presenza decisiva in tutti i settori della vita sociale ed economica, che ha avuto il massimo dell’espressione pubblica dopo le elezioni politiche del 2003. Il re del Belgio ha assegnato l’incarico esplorare la possibilità di formare il governo a Elio Di Rupo, leader del partito socialista belga, sindaco di Mons, abruzzese di San Valentino. Figlio di uno dei tanti braccianti finiti nelle miniere belghe in quel lontano 1946 per duecento chili di carbone al giorno.
Nella primavera del 1946 il capo del governo italiano Alcide De Gasperi e il primo ministro belga Van Acker siglano un accordo. L’Italia si impegna ad inviare mille minatori al mese in Belgio. Ottenendo in cambio la possibilità di acquistare ad un prezzo prestabilito 200 chili di carbone al giorno per ogni italiano inviato in Belgio. Era un’Italia in ginocchio quella che siglò l’accordo. Un Paese che aveva perso una guerra. E che era trattato con diffidenza dai vincitori-alleati. Un Paese alla disperata ricerca di materie prime per far ripartire la sua industria. Le sue centrali. Un Paese che non aveva altro da esportare se non uomini. Braccia di giovani disperati. Spesso reduci da anni nei campi di prigionia.
O padri di famiglia alla ricerca di un’opportunità per guardare con un pizzico di fiducia al futuro della propria famiglia. L’Abruzzo di quel dopoguerra condivideva con la Calabria e la Basilicata una spaventosa situazione sociale. Niente lavoro. Zero infrastrutture. Settori importanti della sua economia al collasso. La pastorizia con la guerra aveva avuto il suo colpo di grazia. L’agricoltura scontava ritardi atavici.
La regione non aveva una prospettiva di ripresa. Era stata esclusa persino dai piani di ricostruzione, che andavano sotto il nome del generale americano che li aveva pensati: Marshal. In quella primavera del 1946, il manifesto della Federazione delle miniere belghe, che era stato affisso nei comuni, a moltissimi giovani disoccupati apparve come una manna. L’occasione tanto attesa per lasciarsi alle spalle miseria e umiliazioni. Quasi nessuno tra coloro che partiva per il Belgio aveva un’idea di cosa fosse una miniera.
Di quali condizioni di lavoro avrebbe trovato. Di come avrebbe vissuto. Partirono con l’entusiasmo di chi fugge dalla povertà. Furono quasi cinquantamila. Moltissimi di loro non tornarono. Dal 1946 al 1963, periodo di durata dell’accoro “uomo-carbone”, nel bacino carbonifero di Charleroi morirono 867 minatori italiani per incidenti. Altre migliaia persero la vita, negli anni successivi, a causa degli effetti devastanti sulla salute provocati della polvere di carbone. Polvere che avevano respirato sotto le gallerie anche per dieci ore al giorno.
La silicosi divenne una malattia tristemente diffusa. I minatori prima della tragedia di Marcinelle scendevano in fondo alle miniere con una piccozza, un casco e una lampada. Nessuno aveva aveva maschere. Per difendere i polmoni dalla polvere si coprivano la bocca e il naso con un semplice fazzoletto. Le norme di sicurezza erano inesistenti. La vita di migliaia di persone affidata al caso. Non c’erano vie di fuga nei cinque livelli della miniera di Bois Du Cazier. Le porte per fermare il fuoco erano di legno, così stagionato da finire presto per alimentare le fiamme.
Il pozzo numero 1, dove l’incendio divampò, serviva anche per il passaggio dell’impianto di aerazione dell’intera miniera. Così, in pochi minuti, tutte le gallerie divennero un’immensa camera a gas. Non c’era un pozzo di salvataggio. E gli altri divennero subito inservibili. Il calore dell’incendio nel pozzo 1 dopo più di un’ora aveva fuso le corde d’acciaio dei montacarichi. Una trappola mortale per 262 persone. La vita degli uomini nelle miniera non valeva un granché. La tragedia di Marcinelle portò agli occhi del mondo una tremenda realtà. I governanti europei a dieci anni dalla fine della guerra dovettero fare i conti con quell’incendio a 970 metri sotto terra. Carlo Azeglio Ciampi, il 17 ottobre del 2002 visitò la miniera-sacrario del lavoro italiano all’estero. Davanti agli scampati e alle loro famiglie sostenne con forza la tesi dell’incidente di Marcinelle come elemento fondante di una coscienza europea «Per la prima volta, è bene ricordarlo» disse in quell’occasione Ciampi, «a una tragedia europea fu data una risposta europea.
La ricostruzione delle cause del disastro, oggetto di una minuziosa inchiesta, indussero l’Alta Autorità della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la Ceca, prima delle istituzioni europee, a convocare una conferenza le cui conclusioni modificarono, e migliorarono radicalmente, le condizioni di lavoro in tutte le miniere dell’Europa comunitaria, e la sicurezza dei minatori. Ho richiamato questi ricordi per dare concretezza alla rievocazione di un momento della nostra storia che oggi ci appare molto lontano, tanto lontano. Quella era un’altra Europa, un altro Belgio, un’altra Italia». E aggiunse: «E’ stato detto che la tragedia di Marcinelle fece di più, per la formazione di una coscienza europea, di quello che fecero tutti i trattati firmati in quegli anni».
A distanza di cinquant’anni da quella tragedia è difficile dire se questa lettura di quegli eventi potrà consolare le famiglie. Una cosa di certo si può dire. Quegli uomini hanno dato un contributo impagabile al loro Paese. Con il loro sacrificio hanno contribuito a rimettere in piedi un Paese uscito malconcio dalla guerra. I 136 morti di Marcinelle hanno costretto l’Europa a fare definitivamente i conti con le diffidenze e il velo di razzismo che c’era nei confronti degli italiani. In Belgio, come in Svizzera. In Germania come in Inghilterra. Dopo Marcinelle nessuno poté più chiamare “Machaques” i figli dei minatori italiani, senza provare una grande vergogna. Quel nomignolo preso in prestito da una razza di scimmie sparì, insieme ai cartelli nei bar che vietavano l’ingresso agli italiani. Sparirono i recinti tutt’intorno alle baracche di lamiera dove alloggiavano i minatori e le loro famiglie.
Dopo quella tragedia, gli italiani all’estero ottennero di colpo una sorta di cittadinanza europea. Uomini e donne che hanno lavorato e lavorano lavorano, con coraggio, onesta e per i più fortunati con successo. Oggi, oltre che il ricordo di quella tragedia, ci resta una comunità italiana in Belgio che oggi contra 300 mila persone. Una presenza decisiva in tutti i settori della vita sociale ed economica, che ha avuto il massimo dell’espressione pubblica dopo le elezioni politiche del 2003. Il re del Belgio ha assegnato l’incarico esplorare la possibilità di formare il governo a Elio Di Rupo, leader del partito socialista belga, sindaco di Mons, abruzzese di San Valentino. Figlio di uno dei tanti braccianti finiti nelle miniere belghe in quel lontano 1946 per duecento chili di carbone al giorno.