Di Gregorio, vita con la madre
Il regista di Pranzo di Ferragosto a Teramo: «Grazie, Garrone»
Gianni Di Gregorio e «Pranzo di Ferragosto», ovvero la simpatia di un ragazzone di 62 anni, che vince alla Mostra di Venezia il Leone del Futuro per la migliore opera prima, e l’allegria di un film che racconta con coraggio una stagione della vita, la quarta età, invisibile nell’intrattenimento cinematografico e televisivo.
Gianni Di Gregorio, che ieri ha vinto il David come migliore regista esordiente (si legga l’articolo a pagina 45) ha aperto martedì sera a Teramo il 18º MaggioFest. Prima della proiezione del suo film nella multisala Smeraldo il regista e sceneggiatore romano ha parlato con il Centro, partendo dalle sue origini teramane.
«Sono nato e cresciuto a Roma, a Trastevere, con la tipica formazione del romano del centro storico. Ma mio padre era nativo di Penna Sant’Andrea, in provincia di Teramo, poi si trasferì a Roma e sposò una romana. Sono molto legato a queste origini teramane, ho tanti bei ricordi. Quando ero bambino tornavamo spesso con mio padre. D’estate passavamo un mese a Penna, e più di una volta si faceva la gita a Teramo, un’intera giornata, tra il caffè Fumo, la visita al duomo, lo struscio per il corso, le compere. Qui ho ancora parenti e amici. A Penna ho una vecchia casa, che è lì come ad aspettarmi da anni e che dovrò risistemare».
Lei si dedica alla scrittura per il cinema dagli anni Ottanta. Ma si può dire che l’incontro decisivo è avvenuto solo nel 2000, con Matteo Garrone?
«E’ stato senza dubbio l’incontro decisivo, che mi ha coinvolto tantissimo. Vidi il suo primo film, “Terra di mezzo”, ne rimasi talmente colpito che lo cercai e gli chiesi se potevo fare il suo aiuto-regista. Incontrare Matteo, che ha vent’anni meno di me, è stato come un rinnovamento. Un sogno realizzato, un modo di fare cinema che avevo teorizzato e che finalmente si concretizzava. Ho ricominciato a lavorare sul set cinematografico e non solo al tavolo di scrittura».
Che cosa le ha dato l’esperienza con Garrone? E cosa lei ha dato a lui?
«Mi ha colpito il suo sguardo sulla realtà, il modo di lavorare molto vicino al reale, la capacità di cogliere anche un solo momento di verità, specie lavorando con non-attori. Verità che poi emerge dallo schermo. Da lui ho imparato questa ricerca continua. Mi ha dato anche energia fisica, Matteo ha una forza spaventosa, è una specie di energumeno. Cosa ho dato io a lui? E’ una domanda difficile, che non mi hanno mai fatto. Non saprei dire. Lui però dice che io sono un soldato. Il sodalizio profondo sta nel fatto che entrambi vediamo il cinema come un combattimento, oltre che un fatto di amore e passione. Abbiamo lavorato sempre con pochi soldi, e questo crea solidarietà, complicità, inventiva».
La storia raccontata in «Pranzo di Ferragosto» ha una base autobiografica. Il film è persino girato nella casa in cui abitava con sua madre. Quando ha iniziato a pensare a un film ispirato alla sua esperienza?
«Nei vent’anni di vedovanza, mia madre si è scatenata nella sua possessività, tipica delle mamme romane, con il figlio unico. Negli ultimi dieci anni della sua vita, dagli 80 ai 90 anni, ha voluto che io stessi a casa sua, mi ha proprio fagocitato, non riuscivo più neanche a lavorare per starle dietro e accudirla. Nonostante lei avesse la badante, e io una moglie e due figlie piccoline, ho dovuto vivere con lei. Lì mi è venuta l’idea. Già in quegli anni ho iniziato a scrivere la storia, avendo tra l’altro conosciuto il mondo della quarta età, affascinantissimo, le sue amiche, persone con una forza enorme e un enorme amore per la vita, un entusiasmo, una potenza, e al tempo stesso una grande vulnerabilità, la paura di restare sole, specie nelle feste».
Come ha scovato le sue attrici? Ed è stato complicato gestirle sul set?
«Grazia, 90 anni, nel film la mamma del dottore, è mia zia nella vita. Valeria, 93 anni, mia madre nel film, è un’amica di famiglia di Matteo, una nobile decaduta che conoscevo e mi piaceva tantissimo. Invece Marina, la più giovane, 85 anni, che nel film cerca di sedurmi, e Maria, 87 anni, la siciliana pazza per la pasta al forno, le ho scoperte al centro anziani di Ostia, dopo aver visto un centinaio di signore. Ma loro erano le due personalità più pazzesche. Gestire tutt’e quattro sul set è stato un macello. Già il primo giorno di riprese ho visto che c’erano tensioni, che loro erano ingovernabili. Allora, per non farle agitare con un copione da imparare a memoria, ho buttato la sceneggiatura. La mattina stessa delle riprese stabilivamo un canovaccio e poi loro andavano, con molta libertà, con battute loro, ma mantenendo il senso della storia. Si divertivano, funzionava, non si agitavano, era come un gioco. La sera noi eravamo distrutti e loro stavano perfettamente. E’ stata una lezione per tutti noi».
E’ nata anche un’amicizia con le sue attrici?
«Sì, ci siamo fatti un sacco di risate insieme, durante la lavorazione e poi al festival di Venezia. Io avevo un vestito solo, loro sono arrivate con i bauli. A quell’età hanno vissuto un momento pazzesco, telefonate, interviste, inviti in televisione. Sono rimaste molto legate tra loro e anche con me. Mi telefonano e mi raccomandano: “Non fumare, non bere”. Mi sono ritrovato quattro madri».
Com’è stato accolto il film all’estero?
«In Francia il film è ancora in sala, alla nona settimana, con 100 copie. Nei festival il film ha girato tanto, suscitando reazioni incredibili e grandi risate, nonostante la difficoltà dei sottotitoli. Ridono i giapponesi, gli inglesi, gli scandinavi, che hanno un rapporto più distaccato con gli anziani. Persino alla proiezione al Moma di New York, che mi intimoriva un po’, con quel pubblico così raffinato, si spaccavano dalle risate. Questo vuol dire che ho toccato qualcosa».
Sta già pensando al prossimo film?
«Sto talmente lavorando ancora dietro a questo primo film, che sta uscendo in tutto il mondo, che non ho avuto modo di pensare al secondo. Devo pensarci bene, deve essere qualcosa in cui credo, a cui voglio bene».