Mi salvai per caso, per un cambio di turno
Umberto Almonte ha oggi 85 anni, al suo posto andò in galleria un minatore spagnolo
ROSETO. Ad Umberto Almonte la vita non ha risparmiato sacrifici, la guerra e la morte di tre figli. Ma lo ha graziato dalla tragedia di Marcinelle. «Scambiai, la sera prima dell ’8 agosto 1956, il mio turno mattutino con quello di un altro lavoratore spagnolo», racconta Umberto Almonte. «Mi chieste», ricorda, «questa cortesia perchè all’indomani aveva un treno che lo avrebbe riportato dalla sua famiglia. Seppi della sua morte ma non conobbi mai il suo nome.
E, oggi, a 86 anni e 50 di distanza da quella mattina penso ancora a quell’uomo e a quella tragedia». Umberto Almonte classe 1921 nel 1954 è partito da Roseto degli Abruzzi per cercare una lavoro che non era quello dell’ortolano. «Avevo mia moglie Esilia due figli e tanta voglia di lavoro», ricorda Almonte, «facevo l’ortolano ma non si campava, così l’unica speranza di una vita migliore era il Belgio». Il viaggio era lungo e prevedeva diverse tapppe: prima Teramo per i documenti; poi Verona per la visita medica, infine il Belgio. «Io la miniera non l’avevo mai vista. Mi accorsi subito dove mi ero cacciato. Il primo giorno di lavoro consisteva nello scendere con un ascensore rudimentale a 500 metri di profondità.
Mi presero in consegna due italiani, un perugino e un toscano. Dentro l’ascensore loro scherzavano e ridevano, io invece ero terrorizzato. Dopo la prima tappa a 50 metri sentii le orecchie farmi malissimo. Una volta sotto ero spaventato a morte. Il cuore prima mi batteva all’impazzata poi non lo sentivo più. In tre percorremmo un dedalo di gallerie. Infine arrivammo a un cunicolo con uno sportello, era un ultimo budello che proseguiva per altri 400 metri. I due minatori che mi accompagnavano si fermarono e dissero “adesso mangiamo”, io risposi che non avere fame. E, loro “mangia perchè poi devi lavorare per otto ore”. Il mio posto era dentro un cunicolo duro, nero e lucido come uno specchio. Era il carbone che dovevo picchettare e far cadere. Solo, stretto in quelle profondità, accompagnato da una luce fioca, mi dissi che non avrei mai resistito.
Decisi che se riuscivo a risalire vivo non avrei fatto mai più il minatore». Una volta fuori Umberto Almonte chiese una ultima occasione: lavorare in galleria e non nel cunicolo. Un ingegnere acconsentì e iniziò un’altra prova ancora con compagni due minatori italiani, uno di Brescia e l’altro di Piacenza. «Dopo un mese l’ingegnere mi volle capo di quella piccola squadra», racconta ancora Umberto Almonte, «non ero d’accordo, non capivo molto di quel lavoro, non conoscevo i rischi mentre era tutto pericoloso. La minaccia maggiore veniva dal gas, dal panico, dalla mancanza di vie di fuga, non c’erano precauzioni». Il giorno prima della tragedia Umberto Almonte aveva incontrato un minatore spagnolo. Lavoravano in turni diversi, mi chiese in modo diretto e convinto un piacere. «Pensai al prestito di denaro, ma mi disse che aveva bisogno di un cambio di turno», racconta il minatore di Roseto, «c’erano pochi treni e per guadagnare un giorno aveva deciso di fare il turno di mattina, acconsentii per il modo davvero sincero in cui me lo chiese. Lui scese in galleria con il turno della mattina e io andai a dormire. Quando mi svegliai andai verso la miniera, mentre mi avvicinavo vidi un insolito movimento, ma mi fermai ad una bar e chiesi cosa accadeva. Una donna di Verona mi disse ad alta voce “Ostia della Madonna, sei cieco?”. Non mi ero accorto di una colonna di fumo e fiamme che si levava sulla galleria. Attorno c’erano gendarmi e persone che gridavano, erano i parenti dei minatori che volevano sapere cosa era accaduto e cosa si stava facendo per salvarli.
A me accadde uno strano torpore, mi chiesi se ero davvero sveglio e per quale motivo non ero nella miniera. Mi ricordai del collega spagnolo ed ebbi una grande apprensione per lui. Non conoscevo nemmeno il suo nome». Il giorno dopo la conta dei morti, le poche speranze di trovare superstiti. «Feci 30 chilometri a piedi e ripartii con il treno per rientrare in Italia», racconta Almonte, «dopo diverse settimane un mio cognato che lavorava a Marcinelle mi rintracciò a Roseto, voleva mie notizie e con lui l’ingegnere che mi aveva aiutato in Belgio. Mi dissero che almeno dovevo prendermi i soldi che mi spettavano. Al telefono risposi che non volevo nulla, dissi “lasciateli ai bambini dei caduti”». Per Umberto Almonte poi iniziò un’altra vita da emigrante, questa volta in Svizzera, «sono stato 16 anni al lavoro in una fabbrica di materie plastiche. Oggi prendo una pensione per quel lavoro. Quando tornai in Italia avevo 8 figli, tre sono morti. Per vivere sono diventato contadino e mi impegnai anche in politica sono stato segretario della sezione del partito Comunista di Mosciano».
E, oggi, a 86 anni e 50 di distanza da quella mattina penso ancora a quell’uomo e a quella tragedia». Umberto Almonte classe 1921 nel 1954 è partito da Roseto degli Abruzzi per cercare una lavoro che non era quello dell’ortolano. «Avevo mia moglie Esilia due figli e tanta voglia di lavoro», ricorda Almonte, «facevo l’ortolano ma non si campava, così l’unica speranza di una vita migliore era il Belgio». Il viaggio era lungo e prevedeva diverse tapppe: prima Teramo per i documenti; poi Verona per la visita medica, infine il Belgio. «Io la miniera non l’avevo mai vista. Mi accorsi subito dove mi ero cacciato. Il primo giorno di lavoro consisteva nello scendere con un ascensore rudimentale a 500 metri di profondità.
Mi presero in consegna due italiani, un perugino e un toscano. Dentro l’ascensore loro scherzavano e ridevano, io invece ero terrorizzato. Dopo la prima tappa a 50 metri sentii le orecchie farmi malissimo. Una volta sotto ero spaventato a morte. Il cuore prima mi batteva all’impazzata poi non lo sentivo più. In tre percorremmo un dedalo di gallerie. Infine arrivammo a un cunicolo con uno sportello, era un ultimo budello che proseguiva per altri 400 metri. I due minatori che mi accompagnavano si fermarono e dissero “adesso mangiamo”, io risposi che non avere fame. E, loro “mangia perchè poi devi lavorare per otto ore”. Il mio posto era dentro un cunicolo duro, nero e lucido come uno specchio. Era il carbone che dovevo picchettare e far cadere. Solo, stretto in quelle profondità, accompagnato da una luce fioca, mi dissi che non avrei mai resistito.
Decisi che se riuscivo a risalire vivo non avrei fatto mai più il minatore». Una volta fuori Umberto Almonte chiese una ultima occasione: lavorare in galleria e non nel cunicolo. Un ingegnere acconsentì e iniziò un’altra prova ancora con compagni due minatori italiani, uno di Brescia e l’altro di Piacenza. «Dopo un mese l’ingegnere mi volle capo di quella piccola squadra», racconta ancora Umberto Almonte, «non ero d’accordo, non capivo molto di quel lavoro, non conoscevo i rischi mentre era tutto pericoloso. La minaccia maggiore veniva dal gas, dal panico, dalla mancanza di vie di fuga, non c’erano precauzioni». Il giorno prima della tragedia Umberto Almonte aveva incontrato un minatore spagnolo. Lavoravano in turni diversi, mi chiese in modo diretto e convinto un piacere. «Pensai al prestito di denaro, ma mi disse che aveva bisogno di un cambio di turno», racconta il minatore di Roseto, «c’erano pochi treni e per guadagnare un giorno aveva deciso di fare il turno di mattina, acconsentii per il modo davvero sincero in cui me lo chiese. Lui scese in galleria con il turno della mattina e io andai a dormire. Quando mi svegliai andai verso la miniera, mentre mi avvicinavo vidi un insolito movimento, ma mi fermai ad una bar e chiesi cosa accadeva. Una donna di Verona mi disse ad alta voce “Ostia della Madonna, sei cieco?”. Non mi ero accorto di una colonna di fumo e fiamme che si levava sulla galleria. Attorno c’erano gendarmi e persone che gridavano, erano i parenti dei minatori che volevano sapere cosa era accaduto e cosa si stava facendo per salvarli.
A me accadde uno strano torpore, mi chiesi se ero davvero sveglio e per quale motivo non ero nella miniera. Mi ricordai del collega spagnolo ed ebbi una grande apprensione per lui. Non conoscevo nemmeno il suo nome». Il giorno dopo la conta dei morti, le poche speranze di trovare superstiti. «Feci 30 chilometri a piedi e ripartii con il treno per rientrare in Italia», racconta Almonte, «dopo diverse settimane un mio cognato che lavorava a Marcinelle mi rintracciò a Roseto, voleva mie notizie e con lui l’ingegnere che mi aveva aiutato in Belgio. Mi dissero che almeno dovevo prendermi i soldi che mi spettavano. Al telefono risposi che non volevo nulla, dissi “lasciateli ai bambini dei caduti”». Per Umberto Almonte poi iniziò un’altra vita da emigrante, questa volta in Svizzera, «sono stato 16 anni al lavoro in una fabbrica di materie plastiche. Oggi prendo una pensione per quel lavoro. Quando tornai in Italia avevo 8 figli, tre sono morti. Per vivere sono diventato contadino e mi impegnai anche in politica sono stato segretario della sezione del partito Comunista di Mosciano».