Nanda, l’amica americana
La Pivano è morta a 92 anni: raccontò gli Usa agli italiani.
Ha riscoperto l’America, cinque secoli dopo Cristoforo Colombo, e l’ha consegnata a generazioni di italiani che hanno imparato a conoscere Melville e Hemingway, Faulkner e Kerouac e Dylan attraverso l’amorevole mediazione delle sue traduzioni e dei suoi saggi. Fernanda Pivano se n’è andata, ieri, a 92 anni (li aveva compiuti il 18 luglio) in una clinica privata di Milano, dove era ricoverata da tempo. I funerali si svolgeranno probabilmente venerdì, a Genova, dove era nata. Un mese fa aveva consegnato a Bompiani la seconda parte della sua autobiografia. Nel 1986 aveva vinto il Premio Scanno per la narrativa. Fernanda Pivano - ma era semplicemente Nanda per gli amici - era un’americanista, una studiosa della cultura Usa. Ma con le lettere e l’arte del Nuovo Mondo, aveva un rapporto, quasi carnale, di complicità.
Con i vecchi e con i giovani. E’ stata traduttrice di Hemingway, Faulkner, Fitzgerald; ha proposto la pubblicazione in Italia di scrittori contemporanei, rappresentativi della rivoluzione letteraria e dei costumi della seconda metà del Novecento: dai beat come Ginsberg, Kerouac, Burroghs, Ferlinghetti e Corso ai minimalisti degli anni ’80, Carver, Leavitt, McInerney, Ellis. E ha dato una mano alla riscoperta di un autore ormai di culto - soprattutto in Italia e grazie a lei - come John Fante, figlio di un muratore abruzzese, e di suo figlio Dan Fante. Quando parlava dei suoi amatissimi Ginsberg e Kerouac, li chiamava «i miei beat» (il titolo anche di un suo libro fotografico di dieci anni fa). Se ricordava Ernest Hemingway e Cesare Pavese, che fu suo professore all’università di Torino e mentore, li definiva «i miei maestri».
Era nata ricca, Fernanda Pivano. Figlia di un miliardario illuminato, Riccardo Pivano, che aveva una banca, e di una bellissima scozzese Mary Smallwood. Il nonno da parte materna aveva fondato la Berlitz School. Dopo le elementari alla scuola svizzera e l’infanzia genovese nella casa sul mare, a 9 anni la Pivano si era trasferita a Torino. Compagna di ginnasio di con Primo Levi al liceo d’Azeglio, si era laureata nel 1941 con una tesi su «Moby Dick» di Herman Melville. Due anni dopo, aveva tradotto l’«Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Masters, livre de chevet per generazioni di adolescenti italiani. Hemingway - l’autore forse più adorato - lo conosce nel 1948 a Cortina e traduce allora il suo «Addio alle armi».
L’anno dopo, sposa l’artista e designer Ettore Sottsass jr, e inizia la sua lunga, ininterrotta storia d’amore con gli scrittori della Beat generation: Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Neal Cassidy, il Dean Moriarty di «Sulla strada». «Mi hanno attaccata per non aver mai valutato i libri, ma io mi sono limitata ad amarli, non a valutarli: questo lavoro lo lascio ai professori», diceva con la sua voce eterna da ventenne. Ciò che le interessava - oltre al valore delle opere - era la biografia dei suoi autori e l’ambiente in cui essi vivevano, amavano, scrivevano. Dall’osservazione della realtà americana sono nati saggi come: «America rossa e nera» (1964); «L’altra America negli anni Sessanta» (1971); «Beat Hippie Yippie» (1973); «C’era una volta un beat» (1976); «Il mito americano» (1980). Ma suoi scritti sono raccolti anche in «La balena bianca e altri miti» (1961); «Mostri degli anni Venti» (1976).
E’ stata anche autrice di due romanzi: «Cos’è più la virtù» con cui vinse il Premio Scanno nel 1986 e «La mia kasbah» del 1988. Nel 2005 aveva raccolto tutti i suoi testi di letteratura, più di 1.500 pagine, in un libro, «Pagine americane: narrativa e poesia 1943-2005», edito da Frassinelli. Nel 2008, aveva pubblicato i suoi «Diari 1917-1971», prima parte della sua autobiografia. L’America vera - al di là della fascinazione letteraria - l’aveva scoperta solo nel 1956. Quell’anno compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti. Tre anni dopo, nel 1959, esce in Italia, con la sua prefazione, «Sulla strada» di Jack Kerouac, un libro epocale; nel 1964 «Jukebox all’idrogeno», un’antologia di poesie di Allen Ginsberg da lei curato e tradotto.
Sono degli anni ’60 gli incontri e le amicizie con Saul Bellow, Henry Miller, John Dos Passos, Ezra Pound, Gore Vidal, Judith Malina e Julian Beck e il loro Living Theater. Fenanda Pivano è stata anche amica di molti musicisti: Bob Dylan, Lou Reed, Jovanotti, e Fabrizio De André che lei considerava «il più grande poeta italiano del secolo». Quando compì 90 anni, nel 2007, disse: «Ho avuto due o tre eroi nella mia vita: il più grande è stato Ginsberg. Hemingway è stato al di là della misura». Ma il suo amore più grande è sempre rimasta l’America. «Dopo la guerra mondiale», diceva, «siamo diventati filoamericani perché quello era il paese delle quattro libertà. Poi c’è stata una battuta d’arresto ma resta una democrazia straordinaria».
Con i vecchi e con i giovani. E’ stata traduttrice di Hemingway, Faulkner, Fitzgerald; ha proposto la pubblicazione in Italia di scrittori contemporanei, rappresentativi della rivoluzione letteraria e dei costumi della seconda metà del Novecento: dai beat come Ginsberg, Kerouac, Burroghs, Ferlinghetti e Corso ai minimalisti degli anni ’80, Carver, Leavitt, McInerney, Ellis. E ha dato una mano alla riscoperta di un autore ormai di culto - soprattutto in Italia e grazie a lei - come John Fante, figlio di un muratore abruzzese, e di suo figlio Dan Fante. Quando parlava dei suoi amatissimi Ginsberg e Kerouac, li chiamava «i miei beat» (il titolo anche di un suo libro fotografico di dieci anni fa). Se ricordava Ernest Hemingway e Cesare Pavese, che fu suo professore all’università di Torino e mentore, li definiva «i miei maestri».
Era nata ricca, Fernanda Pivano. Figlia di un miliardario illuminato, Riccardo Pivano, che aveva una banca, e di una bellissima scozzese Mary Smallwood. Il nonno da parte materna aveva fondato la Berlitz School. Dopo le elementari alla scuola svizzera e l’infanzia genovese nella casa sul mare, a 9 anni la Pivano si era trasferita a Torino. Compagna di ginnasio di con Primo Levi al liceo d’Azeglio, si era laureata nel 1941 con una tesi su «Moby Dick» di Herman Melville. Due anni dopo, aveva tradotto l’«Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Masters, livre de chevet per generazioni di adolescenti italiani. Hemingway - l’autore forse più adorato - lo conosce nel 1948 a Cortina e traduce allora il suo «Addio alle armi».
L’anno dopo, sposa l’artista e designer Ettore Sottsass jr, e inizia la sua lunga, ininterrotta storia d’amore con gli scrittori della Beat generation: Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Neal Cassidy, il Dean Moriarty di «Sulla strada». «Mi hanno attaccata per non aver mai valutato i libri, ma io mi sono limitata ad amarli, non a valutarli: questo lavoro lo lascio ai professori», diceva con la sua voce eterna da ventenne. Ciò che le interessava - oltre al valore delle opere - era la biografia dei suoi autori e l’ambiente in cui essi vivevano, amavano, scrivevano. Dall’osservazione della realtà americana sono nati saggi come: «America rossa e nera» (1964); «L’altra America negli anni Sessanta» (1971); «Beat Hippie Yippie» (1973); «C’era una volta un beat» (1976); «Il mito americano» (1980). Ma suoi scritti sono raccolti anche in «La balena bianca e altri miti» (1961); «Mostri degli anni Venti» (1976).
E’ stata anche autrice di due romanzi: «Cos’è più la virtù» con cui vinse il Premio Scanno nel 1986 e «La mia kasbah» del 1988. Nel 2005 aveva raccolto tutti i suoi testi di letteratura, più di 1.500 pagine, in un libro, «Pagine americane: narrativa e poesia 1943-2005», edito da Frassinelli. Nel 2008, aveva pubblicato i suoi «Diari 1917-1971», prima parte della sua autobiografia. L’America vera - al di là della fascinazione letteraria - l’aveva scoperta solo nel 1956. Quell’anno compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti. Tre anni dopo, nel 1959, esce in Italia, con la sua prefazione, «Sulla strada» di Jack Kerouac, un libro epocale; nel 1964 «Jukebox all’idrogeno», un’antologia di poesie di Allen Ginsberg da lei curato e tradotto.
Sono degli anni ’60 gli incontri e le amicizie con Saul Bellow, Henry Miller, John Dos Passos, Ezra Pound, Gore Vidal, Judith Malina e Julian Beck e il loro Living Theater. Fenanda Pivano è stata anche amica di molti musicisti: Bob Dylan, Lou Reed, Jovanotti, e Fabrizio De André che lei considerava «il più grande poeta italiano del secolo». Quando compì 90 anni, nel 2007, disse: «Ho avuto due o tre eroi nella mia vita: il più grande è stato Ginsberg. Hemingway è stato al di là della misura». Ma il suo amore più grande è sempre rimasta l’America. «Dopo la guerra mondiale», diceva, «siamo diventati filoamericani perché quello era il paese delle quattro libertà. Poi c’è stata una battuta d’arresto ma resta una democrazia straordinaria».