INTERVISTA AL CENTRO
Di Pietrantonio: "Io, la memoria e l'Abruzzo dai mille dialetti"
La scrittrice e la sua lotta a difesa dei cervi: «È una follia ucciderli. La Rai mi ha oscurato perché ho dichiarato il mio voto per D’Amico»
Cosa si prova a diventare – dopo il trionfo del premio Strega – uno dei simboli dell’Abruzzo e dell’Italia nel mondo?
(Ride). "Non scherzi. Per ora è già tanto se resto una odontoiatra infantile a Penne".
Avevo letto che lei abbandonava lo studio in cui ha lavorato – quello in cui ci troviamo adesso – per 36 anni.
"Per chi come me si occupa di salute, perché si possa lasciare il lavoro è necessario che sia finito il rapporto con l’ultimo paziente".
Ma ci vorrà più di un anno!
"Ci vorrà quel che ci vorrà, io non lascio i miei bambini a metà strada".
Perché non possono passare ad un altro medico?
"Forse per altri. Ma per me no. Che sia un libro o una bocca, quello che inizio lo porto sempre a termine. Di che parliamo in questa intervista?".
Della Di Pietrantonio e del concetto di “Abruzzesità”.
(Altro sorriso). "Allora ha davanti una delle massime esperte mondiali".
La metto alla prova. Diamo una definizione ultra sintetica di cosa sia un abruzzese.
"Ha presente lo stereotipo più classico, quello riassunto dal cliché che vorrebbe l’abruzzese sempre e comunque “forte e gentile”?.
È una semplificazione retorica.
"No, è l’immagine più vicina alla realtà. E dopo anni che mi ci arrovello, credo anche di avere capito perché".
Provoco. Non è un po’ buonista come sintesi?
"No, perché questi due abiti mentali sono il prodotto dell’anima più autentica – contadina, pastorale – dell’Abruzzo. L’Abruzzo dell’interno, della montagna, ha scritto questo frammento nel Dna della mia regione".
Proviamo a spiegare perché.
"Basta la mia biografia. Sono nata nel 1962 ad Arsita, nel Teramano. Il primo medico della mia infanzia, era a venti chilometri di distanza da casa".
Detto così sembra che lei parli di un altro secolo.
"E ancora non le ho raccontato nulla: non c’era l’acqua, non c’era il telefono. Ma, soprattutto, non c’era la strada!".
E quindi come ci si andava dal medico?
(Sgrana gli occhi). "Ma a dorso di mulo, ovviamente!".
Che macchina avevate?
"Ah, ah, ah; una Fiat Ritmo, ma solo nel decennio successivo. Negli anni Ottanta. Ha presente la Ritmo?".
L’ha avuta anche Obama. E i miei genitori.
"Beh, negli anni Settanta, ad Arsita, lo status symbol era il mulo. Indispensabile per tutti, ancora di più per i miei genitori che avevano appezzamenti staccati".
Come mai?
"Le grandi superfici erano dei latifondisti. Pensi che il nostro pezzo di terra migliore era un lotto scosceso al di là del fiume rispetto a casa nostra. Immagini traversarlo carico d’inverno, tutto coperto di neve".
Ma perché tutto questo me lo racconta per spiegare lo stereotipo?
"Perché le famiglie contadine vivevano immerse in questa natura, incantate da questo spettacolo, ma anche in lotta contro tutti questi elementi. È l’esatto contrario del buonismo, perché chi non aveva forza di mettersi in questa lotta soccombeva".
Oppure…
"Emigravano. I primogeniti come mio padre, contadini e pastori. Alcuni figli emigravano".
E mandavano soldi da fuori.
"Certo. Penso alla storia di mio zio Emilio, emigrato in Svizzera prima e in Germania poi. E tornato solo adesso, da anziano, dopo essere rimasto solo".
Dove vive?
"A casa con mio padre. Lo guardo con affetto estremo, pensando a tutto quello che ha sacrificato, alle rinunce, al ritrovarsi ottantenne tra due mondi, legato ad entrambi e forse non appartenente a nessuno dei due. Tuttavia, ancora immersi in queste terre, al lavoro".
Ma lei non ha raccontato che suo padre ha già 88 anni?
"Esatto".
E ancora lavora la terra?
"Guardi, il luogo dove mio padre passa più tempo è il trattore. Se lei lo vede in un altro luogo significa che è stanco, o che si sta annoiando. O che sta pensando a cosa farà poi sul trattore".
Ah ah ah. Ho capito perché “Forte”. Però mi deve convincere che questo abruzzese impegnato in questa lotta titanica con la natura è anche “Gentile”.
"Ma lo è, senza dubbio! Guardi, ancora una volta: non per un qualche galateo, ma per un senso di necessità darwiniano".
Spieghiamolo.
"Basta recuperare una parola bellissima del nostro dialetto e raccontarle dello Scagnaiut….".
Oddìo, non ho il vocabolario: “scambia” e “aiuta”? Ma cos’è?
(Sospira). "Ehhh… Perché lei non ha mai mietuto il grano con la falce. Ovviamente".
Lei, ovviamente sì.
"Milioni di volte. E andando a cercare l’ultima spiga, nell’ultimo anfratto dell’ultimo cespuglio".
Perché eravate così poveri da non poter perdere un chicco?
"No, per rispetto del campo. “S’ha da fa’ accusci!”. Il lavoro va fatto bene. Il lavoro della terra è sacro, più vicino al rito che al mestiere. Non si doveva sprecare niente. Niente! Sprecare ciò che viene dalla terra è peccato".
E lo scagnaiut’?
"A giugno si fa il campo tuo? E allora tutti i vicini prendono la loro falce e vengono a tagliare con te. E nessuno chiede un soldo, una paga, non gli passa manco per la coccia. Quando toccherà a loro sarai tu ad andare con la falce da lui".
Questo è scagna. Ma c’è anche aiuta.
"Quando viene Cumbà Nicola ad aiutarti, parte da vicino, in linea d’aria. Ma da lontano, per il tempo che ci mette: scende dalla cima della valle, arriva in fondo, risale. Ecco perché viene da te e tu prepari già il letto, il pasto, lo aspetti. Aiuti, e il giorno dopo scagn, scagn, e poi aiut. Sei ospitale e gentile perché è il modo in cui sei nel mondo. È il tuo mulo conta più di una Ferrari, che ad Arsita, senza strade, vale zero".
Ne aveva uno prediletto?
"Ma certo, Bruno! Alla rassegna dei muli di Arsita – altro che Sanremo – è stato sempre primo, per anni. Tu uscivi e la gente ti guardava il mulo che aveva vinto".
Natura cattiva o buona?
"Noooo…. Mai invettive contro la natura. Lo sa che nella mia famiglia c’erano dei grandi bestemmiatori, soprattutto gli uomini. Ma sempre contro gesucristi e madonne. Perché puoi dare la colpa a un Dio, ma non al mondo che non hai ammaestrato".
Diciamone una, in lingua.
"A me divertiva molto quando, magari perché ci si ammalava un albero, mio padre esplodeva: “Acchiappesse Crist’ e ci facesse le salgicc!!”.
Acchiapperei Cristo e ci farei delle salsicce?
(ride). "Vedo che è portato per le lingue".
Gastro-bestemmia, mai sentito prima.
2Perché il rapporto con il cibo mette in campo l’anima dell’allevatore, che vorrebbe sempre qualcosa da insaccare".
Eravate poveri?
"Molto, per gli standard della civiltà borghese. Per nulla, secondo quelli agro-pastorali".
Spieghiamolo.
"Per un contadino povertà uguale fame. Non avere terra da lavorare, non avere sementi. A noi nulla di tutto questo mancava, quindi eravamo ricchi. Io ho capito che venivo dalla povertà solo al liceo! Però... Pensi al pollo: lo potevi mangiare solo alle feste comandate".
Ma ne avevate più d’uno!
"Tanti. Ma riguardando le foto della mia Prima comunione, ho trovato la prova di un ricordo retroattivo. Io e mia madre quasi in lacrime per un cazziatone del nonno".
Perché mai?
"Mio nonno paterno aveva ricoperto mamma di insulti, perché lei aveva ucciso un pollo. Il fecondatore in una civiltà pastorale è sacro! Tutti devono contribuire come possono, dal pollaio alla casa".
Anche lei contribuiva?
"Certo. Portare le pecore al pascolo, per liberare la forza lavoro di un adulto. Una noia mortale finché – ma eravamo negli anni Settanta – è arrivata la più grande rivoluzione tecnologica della mia giovinezza".
La televisione?
"Macché: la radiolina a transistor. Perché te la porti dietro".
A casa sua cosa si parlava?
"Solo il dialetto. Devo l’italiano a un eroe della scuola pubblica, il maestro Ivano Di Martile".
Quando lo conosce?
"Lo trovo nella mia quarta, nella pluriclasse del paese. Mi ha insegnato lui a scrivere. Ha investito su di me. Non si accontentava mai. Per me era un trionfo abbondare di parole e vocaboli, usare termini forbiti. Lui mi imponeva uno stile in sottrazione che si ritrova anche nei miei libri. Ci riempiva di schede, giornali, libri".
Una lezione per la vita.
(Ride). "Io dico che è stato il mio primo editor. Mi farebbe piacere se domani qualcuno mi dicesse che fine ha fatto, se vive ancora".
Nella pluriclasse se sei bravo impari?
"Io facevo anche i compiti di quinta. E poi mi ha insegnato a classificare le foglie. Un’altra lezione che mi è rimasta per la vita. Io ci tenevo follemente all’italiano perché il dialetto a casa era il primo stigma di classe. Il marchio di inferiorità nel mondo dei grandi".
Eppure lei ha imparato molto dal dialetto.
"Ci sono proverbi, in abruzzese, che sono racconti brevi".
Tipo?
"T’ha parlat’ l’angel’ alla recchia!".
Ah Ah ah…
"La mia famiglia era sempre in guerra. Dicevamo: se nevica ti crolla il pagliaio! Se piove, ci marcisce il fieno! Cirri, fai, agisci, combatti. E poi…"
Cosa?
"Arrivava uno e diceva a mio padre: Che c’ha finit’ li jurn’?".
Mi arrendo. È come il tedesco, per me.
"Ecco un’altra parabola. Significava: “Per caso hai finito i giorni?”. Solo chi non ha più tempo si agita".
Una imprecazione?
"Sciaurasord’! ".
Cioè?
"Una “sciagura sorda”. Così drammatica e grave che non la senti arrivare. Io parlo bene due dialetti abruzzesi. E ne capisco diversi".
Ma quanti ce ne sono?
"Decine e decine. In Abruzzo si cambia dialetto ogni cinque chilometri".
Come mai?
"Orografia. Abbiamo confini visibili e invisibili ovunque: tra valle e valle, tra fiume e fiume, tra muro e strada, tra montagna e mare. Prendiamo il vostro giornale...".
Il Centro?
"Già: ma a l’Aquila è ju Centru, a Pescara è lu Centr, qui a Penne, dove siamo adesso è lu Ciontr… Fantastico. Ci sono due articoli determinativi dell’Aquilano il cui uso è chiaro solo agli iniziati".
Chi comandava nelle vostre famiglie?
"Patriarcato. Ma patriarcato vero. Anzi, raddoppiato".
Cioè, cioè?
"Comandavano i padri dei padri, cioè i nonni. A dei figli che soffrivano. Regole autoritarie per le femmine. Tu chiedevi: “A che ora posso tornare?”. Risposta gutturale: N’si esc’! Nell’abruzzese le vocali scompaiono sempre, soprattutto quando si comanda".
E quindi?
"Entro al liceo nel 1977, e in quei giorni vivevo di bugie".
Tipo?
"Ho inventato decine di attività scolastiche pomeridiane che non esistevano, solo per ingannare mio padre".
Ma il nonno, era contento della scuola?
"Diceva: fagliela fare, tanto è femmina".
Oddio.
"Però qui sono iniziate quelle che io chiamo le felici anomalie. Quelle che mi hanno consentito di diventare me stessa".
Diciamone una.
"La fortuna di avere una insegnante che aveva avuto come alunna mia madre: Antonietta Pelli. Aveva una grande ascendente su di lei. Iniziò un anno prima a dirle: “Questa ragazza deve andare la liceo”!".
Santa donna. E grande intuito.
"Alle medie i miei temi di prima li leggeva in terza. Mi fermavano i compagni di terza nel corridoio stupiti: lo hai fatto davvero tu? La cultura è diventata così, la mia prima forma di riconoscimento, e di successo sociale".
Li ha ancora quei temi?
"No, ma ne ricordo uno – come se lo avessi scritto ieri – su un faggio monumentale ricoperto di edera".
Ma sai chi era quella maestra?
"Antonietta Pelli Locasciulli, la madre di Mimmo. Scusa se aggiungo che per me i dischi di Locasciulli sono un romanzo di formazione, quando torna a casa si senta uno dei più belli, Hydra".
C’erano le foglie d’edera del suo maestro in quel tema.
"E il rispetto per la natura della mia famiglia. Ecco perché non mando giù, e combatto, contro questa follia di uccidere i cervi".
Ma nella civiltà contadina si caccia.
"Prenda mio padre: è un cacciatore! Ma per inseguire una lepre, non per fare il cecchino esercitandosi su un animale che sta fermo. Spara, ma non ucciderebbe mai un orso".
Cosa le dà fastidio della delibera di Marsilio sui cervi?
"Vede, mi fa arrabbiare proprio per la cultura da cui vengo: io e mio padre abbiamo piantato insieme il recinto elettrificato. Perché per mio padre, e per quella visione della natura che le ho raccontato, anche lui ha diritto di esistere".
E quindi?
"Se oggi uccidiamo 469 cervi, ma senza risolvere i problemi, ad esempio eliminare le cause del sovrappopolamento, tra un anno ne avremo 500 di più. Catturarli e redistribuirli è più faticoso. Ma sparargli è una scorciatoia demagogica. In fondo è un bel simbolo per spiegare cosa non funziona in questa destra. Cerca soluzioni semplici a problemi difficili".
Pastori buoni e gentili, dunque, e anche non violenti.
"Non faccia ironie. La legalità era importante per la convivenza: per uno sconfinamento ti posso uccidere. Talvolta si accoltellavano. Ma se tu rubi le pere, e io scopro che è per la fame, prima ti picchio, poi te ne porto un cesto".
Fantastico. Il nonno di mia madre si autodefiniva così: “Povero ma onesto”. C’è un bel film – Vermiglio – che parlando del Trentino mi ha fato rivedere i valori e i dilemmi delle mia infanzia. Le comunità montane hanno regole comuni. Fra l’altro ci recita una splendida attrice abruzzese per cui ho grande stima, Sara Serraiocco… ".
E cosa ha rivisto in Vermiglio?
"Il padre maestro che deve scegliere tra i figli chi deve studiare, perché non possono farlo tutti. Chi studia deve eccellere. Era così per me, anche se non era esplicitato. L’ho capito al cinema".
Il liceo è stato un trionfo, allora.
"Anni di grande realizzazione. Di grandi cambiamenti. Entravo ragazzina con Lotta continua sotto il braccio: ero attraversata dal femminismo. Un giorno, nel 1978, in classe trovarono una scritta sulla porta: “Viva le Br a morte Moro!”. Arrivò la polizia per perquisire tutti!".
Un altro ricordo così potente?
"Corteo femminista a Penne: “L’utero è mio e me lo gestisco io!”. I vecchi ci guardano con gli occhi di fuori: Si so’ ammatite tutt!".
E la differenza di classe?
"Lo sentivo: sempre. Una mia amica lo chiamava “il complesso del tacco allamato”.
Cioè?
"Infangato. Per compensare, piangevo se non prendevo il voto massimo. In quegli anni capisco che la scrittura era un dono. Ma pensa che per un anno, sono stata io stessa arminuta perché la mia famiglia per andare a Penne doveva trasferire gli attrezzi. Mica c’era la ditta dei traslochi".
Sessanta alla maturità.
"E un piccolo premio, metti fossero 300mila lire. E con quei soldi sono stata in grado di viaggiare".
Ha comprato la macchina?
"Noooo! Stivali di pelle e giaccone! Università all’Aquila. A pensione da una signora. Avevo un pasto, ma portavo verdura e carne da casa".
E così faceva di nuovo Scagnaiut!
"Bravo. Pagavo 60mila lire di pensione. 300 lire per pasto, a mensa. Poi il mio unico vezzo degli anni Ottanta, La Repubblica ogni giorno".
Odontoiatria all’Università.
"Perché pensavo: così lavoro subito. Appena uscita sono andata allo studio del collega Michele Raimondi, e come sa ci sono ancora. Ma so che se avessi proposto ai miei di sostenermi a Lettere si sarebbero tolti il pane di bocca: erano orgogliosi. Ma ecco un altro fattore: il mio doverismo. Non pesare più su di loro... ".
Famiglia di sinistra?
"Nonno materno comunista sfegatato. Mio padre più distaccato. Mia madre, una sola volta, convinta dal prete, votò Dc convinta dal prete. Ce lo confessava come un crimine".
Cosa si impara dai denti?
(Ride). "Ehhhh... La lezione dei maestri dell’odontoiatria!".
Cioè?
"Quello che togli è più importante di quello che metti".
Di nuovo sottrazione.
"Esatto. I denti sono vivi. Smalto e dentina: nulla di più duro c’è nel nostro corpo. Ma sono anche fragili, richiedono cura di sè. Non è una bella lezione sulla vita? E non è finita. Possono produrre un dolore senza uguali. La pulpite è il flagello più terribile. Togliere il dolore è il momento di gioia più alto del mio mestiere, insieme a riparare e correggere".
Donatella Di Pietrantonio ha un segreto?
"La mia curiosità. Non puoi scrivere se non sei curioso. Scrivevo anche senza editore, di nascosto, racconti brevi. Li mandai all’editore Elliot, ed ebbi la fortuna di trovare un grande scrittore, Massimiliano Governi, che mi disse: «Manda un romanzo, hai una scrittura lenta e profonda». Il resto lo sapete".
Quando sì è sentita davvero scrittrice? Dopo il primo libro? Dopo il Campiello?
"Solo dopo lo Strega: bellissimo girare tutta Italia, con i colleghi, parlare in decine di piazze. Sa che ancora ci parliamo sulle nostre chat?".
Più d’una?
"Uhhh... almeno tre. La più bella è ispirata da Magritte: “C’èst ne pas un Group”. Poi c’è quella della semifinale, “La sporca dozzina”. E poi una della sestina".
Vi ho incrociato, come sa, a Cervo, in una serata magica. Sembrava una gira, e lei faceva comunella con Chiara Valerio.
"Chiara è come una sorella. Ma ci vogliamo bene tutti!".
Il suo libro meno noto, che però lei ama.
"Borgo sud. Il pubblico lo ha preso come il libro che arriva dopo un grande successo. Mi ha fatto scoprire Borgo Marino".
Non ci aveva abitato?
"Mai Francesco Calandra e Maria Grazia Liguori, due amici, mi ci hanno portato dicendo: è perfetto per il tuo libro. Vero: è un quartiere nella città. Lì ho capito che la terra e il mare, in Abruzzo, sono molto più legate di quanto non si immagini".
L’età fragile è stato un trionfo, ha scritto un libro predestinato, un western abruzzese ambientato sul Morrone.
"Western mi piace".
Ci sarà almeno un’ombra in questo idillio.
"Una cosa che mi ha amareggiato, con la Rai".
Addirittura?
"Mi avevano chiamato per un monologo sull’Abruzzo, a Che sarà. Bene".
E poi?
"Doveva andare in onda. Era il sabato prima del voto per le regionali. In una lunga intervista a La Repubblica, fra le altre cose, dico che voterò il candidato del Campo largo, Luciano D’Amico".
Prevedibile, ma che succede?
"Che dalla Rai chiamano la casa editrice, neanche me, e dicono: «Siccome la Di Pietrantonio si è schierata, per la par condicio lo dobbiamo sospendere».
Una follia: la par condicio non c’entra nulla. Vale se uno fa dichiarazioni di voto in diretta, non se in altra sede manifesta le proprie libere opinioni. E quando è andato in onda?
"È questa la cosa brutta. Mai".
Mi regali una cartolina della “Sua” Penne e la libero.
"La porta francescana, meravigliosa, che proietta il paese nel mondo. Nasce come atto di devozione al Santo di Assisi, che in queste terre spartane aveva un seguito enorme. Bellissima, austera, tutta di mattoni. Con un colpo di scena".
Quale?
"Nella nicchia alta non c’è più Francesco. Per motivi che ignoro hanno collocato San Massimo, famoso per il suo cranio voluminoso".
Dobbiamo trovare un finale.
"Stavolta è facile: le ho detto che mio padre era un grande bestemmiatore. Beh, lo è ancora: si rivolge verso la porta e inveisce: “stramaledett’ lu cuccion’ d’ San Massim’!!”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA