Gianni Letta compie 90 anni: il grande stratega dei potenti e cerimoniere per i Papi

Nato il 15 aprile 1935, un maestro nell’arte del soprassedere e della mediazione. Da operaio dello zuccherificio di Avezzano a giornalista, fino all’era Berlusconi
AVEZZANO. Le sue frasi più celebri: «Quindici minuti di ascolto non si negano a nessuno». Ancora: «Non ho fatto la storia e decisamente non sono un angelo». Dopo il terremoto dell’Aquila: «Penso con orrore a chi crede che le calamità possano essere un pretesto per fare buoni affari». Infine: «Tutto si impara, anche la virtù». Dicono di lui: «Risponderebbe con lo stesso garbo pure al mostro di Düsseldorf chiedendo: cavro, cosa posso favre per lei? Dio può abbandonare suo figlio in croce, ma Letta ha sempre un fazzoletto in tasca». Dopo la morte di Silvio Berlusconi intervenne solo a riflettori spenti: «Ho scelto il silenzio anche per la sensazione che tanti lo celebravano per celebrarsi». Ritenuto un maestro nell’arte di soprassedere, così ne ha scritto Giuliano Ferrara: «Mentre io mi chiedevo che cosa fare, Gianni sapeva sempre che cosa non fare». L’arte del soprassedere di un «uomo felpato». Il nuovo Giulio Mazzarino della Marsica, per qualcuno a cui piace rievocare le storiche gesta del cardinale di Pescina che servì in Francia alla corte del Re Sole. Per altri più «uomo nell’ombra».
Gianni Letta da Avezzano, nato il 15 aprile 1935, 90 anni oggi, ha attraversato con la sua abilità nella mediazione gran parte della storia recente del Paese, a partire dalla Prima Repubblica. Senza mai una tessera di partito in tasca. Figlio di Vincenzo, avvocato, scampato al disastroso terremoto di Avezzano del 1915, originario di Aielli, paese di cui ne divenne il podestà ai tempi del fascismo. Una autentica dinastia tutta marsicana, quella dei Letta, come ben ricostruito anni fa per il Centro dall’abile mano narrativa del giornalista Nino Motta. Vincenzo sposò nel 1931 Maria De Vincentiis e da quell’unione nacquero otto figli: Luigi, Gianni, Giorgio, Maria Teresa, Corrado, Francesca Romana, Cesare e Adriana. Tante carriere brillanti, storie di successo. Su tutte quella di Gianni Letta, che di fare l’avvocato come il papà non ne volle proprio sapere. Studi al Liceo classico Torlonia, a 18 anni il suo primo impiego lo trovò allo zuccherificio di Avezzano, nella lavorazione delle barbabietole che arrivavano dal Fucino. Tanto che per qualche lettiano convinto è pure «l’uomo dello zucchero». Entrò da operaio in quel casermone di via Trara che oggi è solo roba buona per l’archeologia industriale e ne uscì da capo del reparto chimico. Nella fabbrica conobbe Maddalena Marignetti, la figlia del direttore, che diventerà sua moglie. Donna nota per i suoi consigli sotto il tetto coniugale e per le sue crostate. Ma questo lo vedremo più avanti.
Il grande sogno di Gianni era fare il giornalista. Mestiere iniziato da corrispondente all’Aquila per il quotidiano romano il Tempo. Ma il suo talento lo porterà tanto più lontano. Diventerà prima responsabile amministrativo e, alla morte del fondatore Renato Angiolillo, nel 1973, direttore del quotidiano romano. Aveva 38 anni. Carica che manterrà per 14 anni, fino al 17 aprile 1987.
Sempre impeccabile nel vestire, se parla lo fa a braccio, rigorosamente in piedi, senza un appunto, senza incespicare, senza allungare le vocali per cercare le frasi giuste, al massimo con un libro da aprire per leggere il passo di uno scrittore, o di uno storico, probabilmente per vezzo perché, c’è da giurarlo, lo conosce a memoria, come ha scritto di lui Roberto Gressi sul Corriere della Sera.
Da abile tessitore, Letta era di casa dalla signora Angiolillo, vedova di Renato, e in quel salotto accoglieva ospiti come Gianni Agnelli, Giulio Andreotti, Cesare Romiti, Lamberto Dini e Silvio Berlusconi. Salotti romani ma anche televisivi. Perché frequenti erano le sue apparizioni nelle tribune politiche del tempo e in altri programmi come “Più sani e più belli” e “Le ragioni della speranza”. Mai una parola fuori posto. Dalla puntualità quasi maniacale.
Nel 1982 comparve nella parte di sé stesso nel film di Alberto Sordi “Io so che tu sai che io so”. Titolo che sembra cucito a pennello per l’abile marsicano.
Ma è nel 1994 che cominciò la sua nuova vita. L’Italia usciva dal ciclone Mani pulite e, dopo la vittoria elettorale alle Politiche, Berlusconi lo volle come sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri. Incarico che manterrà in tutti e quattro i governi di centrodestra, diventando il consigliere più ascoltato del Cavaliere, anche al tempo del terremoto dell’Aquila. Ma restando pure un interlocutore privilegiato delle opposizioni.
Ed ecco la storia della crostata di lady Letta. Servita, si narra, per tentare un “inciucio” tra Massimo D’Alema e Berlusconi. Dopo che era stato già gran cerimoniere del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e lo stesso leader di Forza Italia. Un artista della politica, che dipinge su qualsiasi tela o superficie. Nel 2008 il Cavaliere lo propose come presidente della Repubblica. Al primo scrutinio raccolse 369 voti, non riuscendo ad arrivare al quorum. Fu eletto Giorgio Napolitano al quarto tentativo. Vicinissimo pure agli ambienti del Vaticano, nel 2008 fu promosso Gentiluomo di Sua Santità, viaggiando a bordo di aerei o elicotteri papali in occasione di udienze o cerimonie coi capi di Stato. “Chi è quel signore di bianco vestito vicino a Gianni Letta?” si scherzava. Quando, nel dicembre 2011, decise di fare un passo di lato – mai indietro, come sua abitudine – per «lasciare spazio ai giovani», il presidente Napolitano sentì il dovere di esaltarne «la sensibilità, la competenza e lo spirito di servizio, con cui ha contribuito a mantenere vivo il rapporto tra presidenza della Repubblica e governo». Chi lo racconta l’ha sentito solo una volta incazzato, parola da lui stesso usata (il massimo della volgarità che si è concesso), quando Berlusconi era ripiombato in uno degli ultimi scandali.
I suoi maestri? Ne ha parlato nel 2010, rievocando i giorni tragici della prigionia di Aldo Moro: «Spesso ci incontravamo con Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli, forse ho imparato allora il valore del dialogo sereno, pacato, serio, costruttivo, anche da posizioni distanti e differenti». Infine, il rapporto con l’Abruzzo. Detto del terremoto aquilano, torna di rado ad Avezzano, dove non ha lasciato una esclusiva impronta, nonostante abbia le Chiavi della città. Proprio in quella cerimonia di consegna, nel marzo 2015, parlò così: «La mia città mi riaccoglie dopo tanti anni di esilio con calore e unità d’intenti che mi hanno tolto la parola. Oggi è come se fosse un secondo battesimo. Ora Avezzano non è solo la madre ma anche la città che mi riaccoglie come se fossi andato via solo ieri. E lo fa donandomi l’altissimo privilegio delle Chiavi della città». Più che esilio, autoesilio, per una vita preferita ai salotti romani e del potere. Di Tagliacozzo, Rocca di Cambio e Corfinio è cittadino onorario. A Pescasseroli l’onorificenza a Letta, ritenuto personaggio divisivo, portò a un’accesa lite in consiglio. Così come all’Aquila, dove nel 2018 fu cancellata la cerimonia del 21 settembre, mai più riprogrammata. Lui, Gianni da Avezzano, che pare sempre dar ragione al suo interlocutore, la disputa l’avrebbe abilmente risolta, da mediatore qual è. O con una crostata ai mirtilli.