Il virus della vita che ricordavamo
Era come l’immaginavamo? La vita, insomma, che abbiamo ricominciato ad assaporare, da ieri, è quella che abbiamo sognato in questi due mesi di esilio dal mondo a cui ci ha condannati il coronavirus? È difficile dirlo. Non solo perché mascherine e distanza sociale ci vietano ancora piccoli piaceri quotidiani ingigantiti, nel ricordo, da giorni e giorni di astinenza. Ma anche perché siamo tornati in strada e al lavoro con un’aspettativa simile a quella di chi ha visto la propria città distrutta da un terremoto o da un altro cataclisma naturale: la voglia di vedere ricostruito il teatro della nostra vita precedente esattamente come era prima che la sventura si abbattesse su di noi. Fra gli effetti imprevisti di questa lunga quarantena ce n’è uno che molti di noi avranno qualche reticenza a confessare: nei confronti delle piccole-grandi cose che popolano la nostra vita: siamo ora tutti un po’ conservatori. Dietro la voglia dichiarata di palingenesi e di riforme radicali del mondo nascondiamo, in realtà, una sorta di fanciullino pascoliano che ci sussurra: «Voglio che nulla cambi, che tutto resti com’era». Questo desiderio è insistente come un virus. E contro di esso non c’è, al momento, un vaccino che abbia una qualche speranza di poter cantare vittoria.
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