Luci e barriere contro il degrado delle periferie
L’editoriale di Luca Telese sulla notizia di cronaca che lo ha visto coinvolto negli ultimi giorni
Ieri ho iniziato a scrivere questo articolo dopo aver ricevuto il messaggio numero mille che mi chiedeva: “Ma davvero sei stato colpito, in piazza, da un cazzotto di Tarzan?”. Non vi preoccupate se non sapete chi è Tarzan. E non fatevi ingannare dal contesto: qui non si parla di cartoni animati, ma di periferie, di cancelli e di diritti, di legalità e di degrado. Spiegherò tra poco (a chi di voi ancora non conoscesse la notizia sulla rissa metropolitana che mi ha coinvolto) chi sia “Tarzan”, e se ci sia stato o meno un cazzotto nella piazza di Roma dove abito, che curiosamente si chiama “via” Pepe. Ma devo partire da più lontano: nel mondo dell’era Trump cambiano le agende della politica, il racconto sociale e persino la geografia dei luoghi, che ormai prescindono da qualsiasi continuità territoriale.
Mai come ora - per dire - le periferie più disparate che si accendono intorno al tema della “sicurezza” confinano tra di loro, persino quelle di città e paesi diversi e apparentemente più lontani l’una dall’altra: puoi attraversare una piazza di spaccio ad Esquilino (Roma) e ritrovarti subito in una battaglia di occupazione abusiva per la casa a Rancitelli (Pescara), passare da una guerra di pullman ad un paese assediato (Roccaraso) e infine chiudere con un inseguimento di polizia (a Milano), purtroppo, ritrovandoti trascinato a dibattere sul tema della legittimità di quel gesto, perché c’è scappato un morto. Tempeste sui social e campagne informative lampeggiano in una surreale intermittenza, facendo la differenza tra silenzio ed enfasi, tra luce e buio. In ogni caso eccesso.
IL RACKET DELL’ESQUILINO
Ed ecco i fatti dell’Esquilino, Roma, Italy. In un fazzoletto di quartiere, proprio in quella piazzetta magica che si chiama Via Pepe, si insedia giorno dopo giorno un organizzato gruppo di spacciatori. Questo racket ha bisogno di creare una moderna ed efficiente infrastruttura di spaccio. Per raggiungere questo obiettivo, dunque, decide di accamparsi sotto un meraviglioso monumento a cielo aperto, l’ultimo frammento di acquedotto romano del quartiere. Nessuno li ferma. “Non abbiamo i mezzi”, ripetono polizia e carabinieri. “Li arrestiamo ed escono”, aggiungono. Se arrestano un barbone o un clandestino è finito, infatti. Ma per gli spacciatori arrivano i migliori principi del foro. Curioso, no?
Il racket usa la piazza come una fiera, e insieme un magazzino all’ingrosso delle droghe, l’acquedotto come uno scudo di protezione, il monumento “democratico” ad un ragazzo tragicamente ucciso (Willy Monteiro) che è davanti all’acquedotto come uno sportello-stupefacenti per i loro clienti. Così, metodici e seri, gli spacciatori iniziano a conquistare metri cacciando da quello spazio monumentale degradato tutti gli altri: imparo guardando dalla finestra, come in un film di Alfred Hitchcock, che un fast food di droga è uguale un fast food di McDonald, ha bisogno di due condizioni: accessibilità, velocità di vendita e di transito. Si entra, si compra, si esce a razzo, meglio se su un monopattino elettrico. Ecco perché il racket combatte subito contro gli altri abitatori di quella piazza. In primo luogo gli homeless, che rappresentano una barriera architettonica. E poi contro i lavoratori del Bangladesh, che lavorano dalle cinque nel mercato Comunale più famoso di Roma (Piazza Vittorio). Questi stranieri che si raccolgono di fronte ad un bar di via Pepe, proprio di fronte al monumento a Willy, danno fastidio perché chiamano casa con i loro telefonini. Gli spacciatori hanno bisogno di tranquillità e di buio, per operare, quindi temono i ragazzi che potrebbero riprendere o vedere, o anche solo disturbare i clienti. Agli spacciatori danno fastidio anche gli spettatori del teatro che è nella stessa piazza (si chiama Ambra Jovinelli), agli spacciatori danno fastidio i clienti di un ristorante che lì è la terza luce accesa della notte, ha grande successo, è sempre pieno, e si chiama Cucina Pepe. La piazza di cui parliamo è la sintesi perfetta di Roma, e della sua storia architettonica, e quindi dell’Italia. Acquedotto millenario, caserma sabauda, teatro Liberty, hotel Radisson anni Sessanta, muro di stazione in stile Ventennio. Unità di tempo, luogo e azione.
IL CODICE DI GOMORRA
Ecco dunque che chi spaccia inizia a marcare il territorio usando un codice di camorra, il falò della terra dei fuochi, acceso dietro gli archi romani, giorno e notte. Ecco perché gli spacciatori si mettono a rompere bottiglie di vetro, per scacciare dal piccolo parco aperto che è la piazza, non solo i bambini, ma anche i cittadini che portano a spasso i cani. Ecco che il racket organizza turni giorno e notte, e costruisce piccole casette dove proteggersi dal freddo e custodire la merce, ecco che trascina transenne rubate in città per aprire e sbarrare gli archi come le chiuse di una diga a suo piacimento, come in un moderno fortino neo-medievale. Questa piazza, appena si spopola di vita e luce, si popola di buio, di fantasmi, tossicodipendenti ridotti a larve - moltissime donne giovani - che entrano ed escono, in una economia di giro, in cui ogni dose costa dieci euro. Se sei una donna avvicini chiunque offrendoti (“Se mi dai dieci euro te lo prendo in bocca”), se sei uomo vieni invitato a rompere i vetri delle macchine e a ributtare quel che trovi, e puoi rivendere subito gli oggetti rubati in un mercatino di ricettazione permanente allestito davanti al mercato di piazza Vittorio. In questa economia di giro bastano dieci euro guadagnati o spesi per salire sulla giostra, tutto è veloce.
Dieci euro diventa il valore di un giro, e quindi di una vita. I più violenti strappano i telefoni dalle mani delle ragazze o dei passanti (e li portano al mercatino) dopo averli tramortiti con un sasso o un mattone. E il territorio cambia così: se c’è luce un posto incantevole, se c’è buio gira la giostra della droga, dei corpi e delle anime morte che abbiamo descritto. In questo tritacarne può finire una giovane influencer come Karima, una youtuber di successo che con i suoi video raccontava la vita del quartiere, guadagnava dalle visioni, veniva invitata ovunque. Nelle tenebre diventa una larva del racket: quando finisce in overdose, persino per soccorrerla (dietro il famoso acquedotto) bisogna trattare con gli spacciatori che controllano quel territorio. Recuperare un corpo. Poco tempo fa Karima ha scritto il suo ultimo post: “Mi hanno tolto mia figlia, sono finita, ma meglio così, una famiglia in affido potrà salvarla”.
Ed eccoci a Tarzan. La presidente della circoscrizione, Lorenza Bonaccorsi, ha una bellissima idea: “riqualificare” quello spazio costruendo dietro l’acquedotto due campi da calcio, giochi per bambini, altalene. Portare luce nel lato oscuro. E propone - ovviamente - di proteggere con una cancellata. Come la vicina piazza Vittorio, meraviglioso spazio multi-culturale (a neanche 200 metri) protetto da una meravigliosa cancellata d’epoca, e al tramonto si chiude.
“TARZAN”
Potete quindi immaginare il mio stupore quando sabato mattina, in quella stessa piazza dove casualmente abito, a Roma, mi ritrovo la manifestazione di un comitato (si chiama Polo Civico) che dice di sostenere l’iniziativa della presidente, ma precisa che la sua parola d’ordine è “No cancelli”, perché i cancelli sarebbero “zone rosse” e “caivanizzazione” della città. Il leader di questo comitato, o il suo frontman più importante, è lui: Andrea Alzetta detto “Tarzan”, leader dei centri sociali che ha scalato il comitato con parole d’ordine massimaliste. Tarzan e gli altri suoi amici della giungla, che non conoscono la realtà che vi ho raccontato, dispiegano un meraviglioso racconto fantastico alternativo: dietro quell’arco ci sono “persone che combattono contro l’emergenza abitativa”, spiegano che “il cancello è di destra, è securitario!”. Spiega che il mercatino della ricettazione di via Principe Amedeo è in realtà “un mercatino di sussistenza solidale e di riuso”. Fantastico: ci puoi trovare l’ultimo modello delle Nike e un iPad più nuovo del tuo. Allora scendi, con altri cittadini, e infrangi questa meravigliosa “narrazione” disneyana. E se gli racconti dei bangla assaliti dagli spacciatori, delle ragazze prese a bastonate, degli homeless minacciati con il fuoco, del faló, delle staffette e dei corrieri, e se tanti cittadini confermano e aggiungono capitoli al film dell’orrore, il capotribù Tarzan si arrabbia e urla: “Ma basta! Non ascoltate più questo provocatore, questo fascista securitario!”. Intendeva dire me. Tarzan interviene perché ad uno che ripeteva no-cancello, ho chiesto se vuole abbattere anche quello di piazza Vittorio. Il poveretto è andato in tilt.
Ma io, invece di andarmene, mi avvicino al capotribù, gli accarezzo la capoccetta con un gesto affettuoso, gli ricordo: “Andrè, ma chi è l’unico giornalista che ha parlato di te quando sei stato dichiarato decaduto dal tuo incarico elettivo a Roma, in nome della legge Severino?”. Alzetta sorride. Era vero, il giornalista ero io. Ma quando si accorge che tutti sono allibiti che il provocatore securitario gli accarezzi la testa, e che lui sorrida, improvvisamente vede buio. Si arrabbia, si sente ferito, si alza e prova a mollarmi un gancio. Siamo entrambi seduti su due sedie di plastica, la mia fortuna. Io cappotto, e lui va a vuoto. Colpisce ancora. Ma sono a terra, nella sedia, e lui si ferisce le mani sui braccioli. Il volo arriva attutito. Vedo buio.
Riparo gli occhi e vedo su di me i distintivi Digos di agenti in borghese. Che mi salvano, ma che mi dicono: “Deve denunciarlo!”. “Lo arrestiamo subito!”. “Deve lasciare la piazza”. Non accade nessuna delle tre cose. In fondo non sono stato nemmeno sfiorato. Finisce il convegno di piazza, Tarzan è in un angolo, mi pare preoccupato. I suoi si dividono tra chi insulta me e chi insulta lui. Gli tendo la mano: “Per me finisce qui”. Ed è vero. Il problema non è Tarzan, ma gli spacciatori che protetti dietro le sue posizioni operano indisturbati. Nel buio e nelle favole lo spacciatore prospera: nella luce e nel controllo legalitario degli spazi pubblici lo spacciatore soffre.
LA STAFFETTA DI LEGALITà
Non c’erano giornalisti durante il dibattito. Ma da una pagina Facebook la notizia si diffonde così: “Telese colpito ad uno zigomo da Tarzan”. Non è vero, voi lo sapete, ma la notizia deflagra, finisce su tutti i siti online in un giorno. Quando la smentisco, ritorna nelle homepage per un altro giorno. A Via Pepe sembra che inizi una staffetta di legalità incredibile. Prima i vigili. Poi i carabinieri, quindi la polizia. Infine di nuovo i vigili. Niente fuoco. Spacciatori in sabbatico. Acquedotto di nuovo pulito. Anche a Roccaraso, dopo l’invasione della settimana precedente, rifiuti, violenza, risse - dodicimila persone appartenente mosse da una blogger napoletana - dopo filtri e targhe alterne, numero chiuso, il paese torna calmo. Anche a Rancitelli, dove gli spacciatori inseguono i clienti per strada, quando si accende la luce gli occhi restano nelle tane. Non bisogna illudersi.
Non è per sempre, ma vengo sommerso di messaggi che festeggiano le due “Vittorie” simultanee e lontane, e capisco che il problema è lo stesso. Si può essere costretti a chiudere e limitare alcuni, per difendere tutti. E questo non è di destra o di sinistra, ma semplicemente di buonsenso. O regole o giungla. O cittadini o scimmie. O cocci aguzzi di bottiglia o bambini. O luce o buio. Se non vi piace cancello chiamatelo “Presidio passivo dello spazio pubblico”. Scriveteci pure sotto “Questo non è un pipa”, come per i quadri di Magritte. Se preferite chiamatelo Pippo. Ma se vogliamo salvare la città il cancello ci deve stare.