Pino Aprile a tutto campo: “Basta con la balla del Nord locomotiva d’Italia, l’autonomia differenziata è razzista”
Il giornalista pugliese ha pubblicato da poco “Meglio soli”, ultima fatica del lavoro iniziato con “Terroni” nel 2010. La proposta è quella di un Mezzogiorno indipendente. Ma nel suo racconto c’è molto di più: il rapporto con l’Abruzzo, quello con la figlia e la sua carriera da giornalista
“C’è sempre una giustificazione per il privilegio. La storia del Nord che traina il resto d’Italia è la bugia che sta distruggendo questo Paese. L’Italia non cresce e il divario tra Nord e Sud aumenta. Non perché su si migliora ma perché giù si peggiora”. Pino Aprile, pugliese classe 1950, ha fatto della difesa del Meridione e dei meridionali la sua battaglia di vita. La pubblicazione nel 2010 del libro “Terroni” rappresentò un vero fenomeno editoriale: pubblicato senza tante aspettative, vendette centinaia di migliaia di copie. Quasi quindici anni dopo pubblica “Meglio soli”, scritto in collaborazione con Luca Antonio Pepe, proponendo la secessione del Sud dal resto d’Italia se “non si riconosceranno pari diritti ai meridionali”. Anche quest’ultima fatica si presenta come un successo: appena un paio di mesi dopo la sua prima pubblicazione è già in ristampa.
Pino Aprile non è solo un meridionale fiero della propria identità. E’ anche un giornalista di lunga data (era Berlino quando cadde il muro ed è stato il primo ad intervistare Ali Ağca, l’attentatore che provò ad uccidere Giovanni Paolo II), padre di due figlie. Una di loro, Marianna, è anche lei giornalista.
La Puglia è sempre nel cuore, ma oggi Aprile vive a Frascati, nella zona dei Castelli Romani.
A 15 anni dalla pubblicazione di “Terroni” esce “Meglio soli”. Cosa è cambiato? Da quando è uscito “Terroni” – chiaramente non solo grazie al mio libro – i meridionali hanno acquisito quella consapevolezza della loro identità che è mancata nel secolo e mezzo precedente. Ottenuta la consapevolezza, bisogna ottenere i diritti che finora ci sono negati, altrimenti l’indipendenza.
Consapevolezza di cosa? Del fatto che il Nord Italia ci ha colonizzato. Prima era dato per scontato che in alcune aree del Paese il privilegio fosse un diritto e che in altre bisognasse accettare delle rinunce per garantire quel privilegio. La Lombardia rappresenta meno dell’8% del territorio nazionale e ci sono più corse di treni che in tutto il Meridione, che rappresenta il 41% del territorio e ha più di 20 milioni di abitanti (escludendo la Sardegna). Ora i “terun” non lo accettano più.
Di solito si dice che il Nord è la “locomotiva” d’Italia. Il sistema cerca sempre una giustificazione per mantenere il privilegio. La storia del Nord che traina il resto d’Italia è la bugia che sta distruggendo questo Paese. L’Italia non cresce e il divario tra Nord e Sud aumenta. E non perché il primo migliora, ma perché il secondo peggiora.
Si spieghi meglio. La famosa locomotiva del Nord è ferma in stazione da un bel pezzo e per tenerla attiva vengono sottratte le risorse che sono destinate al Sud. E guardi che non lo dico solo io, ma fior di studiosi come Adriano Giannola, il presidente di Svimez.
Insomma, meglio soli? Sì. Almeno possiamo combattere le nostre battaglie senza che lo Stato e una parte dell’economia del Nord ci remino contro.
Immagino che non sia un sostenitore dell’Autonomia differenziata. E’ l’ennesima legge razzista di questo Paese ma è anche l’ultimo colpo di coda di un potere che sta morendo. Rappresenta il tentativo di cristallizzare la dinamica per cui chi ha già molto deve ricevere di più e chi ha di meno deve avere sempre di meno.
Perché afferma che questo sistema sta morendo? Il governo che sta portando avanti il progetto dell’autonomia differenziata ha molti sostenitori nel Sud. I meridionali cercano qualcuno che faccia veramente proprie le loro istanze. Ora appoggiano il governo Meloni – probabilmente il più feroce nei confronti dei poveri e del Meridione – ma nel 2018 il voto si spostò verso il M5s. Prima ancora, nel 2015, verso il Pd di Renzi. Il fatto è che la questione è politica, non partitica.
E lei non ha mai pensato di mettersi in politica? Mi hanno proposto candidature dappertutto: al Senato, alla Camera, all’Europarlamento. Ho sempre rifiutato. Sono prima di tutto un giornalista, e se avessi accettato di candidarmi avrei perso credibilità.
Già, accanto all’Aprile meridionalista c’è l’Aprile giornalista. Quando ha capito di voler fare questo mestiere? Quando ho capito che bisognava lavorare per vivere. I soldi a casa non c’erano proprio e io non mi ero mai posto il problema. Lavoravo ma solo per fini immediati. Capire che l’avrei dovuto fare per tutta la vita fu uno shock.
E poi? E poi ho pensato che fare il giornalista potesse essere utile per realizzare un mio grande sogno: girare il mondo. E allora, senza una lira in tasca, partii per Milano alla volta dell’unico giornale che conoscevo: la Domenica del Corriere.
Non c’era bisogno di andare fino a Milano per trovare una redazione. L’ho scoperto dopo. Io non avevo mai letto né toccato un giornale in vita mia. Conoscevo la Domenica del Corriere solo perché mio padre lo comprava, appunto, la domenica.
L’ascolto. A Milano sono riuscito ad intercettare il fattorino che stava salendo in redazione e a consegnargli un biglietto in cui chiedevo al direttore di fissarmi un appuntamento. E presto, perché non avevo soldi. E sa cosa mi ha risposto?
No, cosa? Mi ha fatto recapitare dal fattorino 10mila lire. Anche se non avevo soldi rifiutai: volevo fare il giornalista, non l’accattone.
E quindi è tornato a casa, in Puglia? Prima ho girato le redazioni di mezza Italia, dormendo anche per strada. Una fatica vana. Poi, una volta tornato a casa, ho scoperto che esisteva la Gazzetta del Mezzogiorno. Ho scritto una lettera al giornale, dicendo che non sapevo nulla di giornalismo ma che imparavo in fretta. Tre giorni dopo mi hanno convocato alla redazione di Taranto. Ma non penso che inizialmente volessero assumermi (ride, ndr).
Perché? Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo di cronaca su una conferenza che iniziava alle 20:30. Ma il redattore voleva che glielo consegnassi entro le 20.
Un compito impossibile. Così sembrava. A tenere questa conferenza era un sindaco diventato noto perché abbatteva le case abusive con la dinamite. Io mi misi a cercarlo e trovai l’albergo dove stava riposando prima della conferenza. Mi presentai davanti alla sua porta.
E lui l’aprì. E si trovò davanti un 20enne sbarbato che si spacciava per giornalista e che voleva sapere cosa avrebbe detto alla conferenza a qualche ora dal suo inizio.
In molti le avrebbero chiuso la porta in faccia. Fortunatamente non lui. Mi raccontò il tema della conferenza e così riuscii a presentare il pezzo prima delle 20. Il redattore era sbalordito. Senza quel sindaco forse non sarei mai diventato un giornalista. Gli sono grato.
Un episodio della sua carriera a cui è particolarmente legato? L’intervista ad Ali Ağca, l’attentatore di Giovanni Paolo II. Qualunque giornalista avrebbe pagato per intervistarlo. E io non solo ci riuscii, ma fui anche in grado di farmi dare le risposte alle domande che non potevo fare.
Che intende? Per intervistarlo dovetti andare dal giudice e chiedergli l’autorizzazione. Lui acconsentì all’intervista a patto che controllasse le domande. Le scrissi su un foglio ma furono censurate tutte tranne le più banali. Allora andai nella sala dei colloqui – piena di registratori della procura - con questo foglio. Lo feci vedere ad Ali Ağca dicendo qualcosa del tipo: “vedi, di queste domande io posso farti solo quelle segnate, leggile bene”. Lui capì al volo: gli chiesi come stava e lui mi rispose raccontandomi la sua storia.
Una bella soddisfazione. E pensare che mi pagavano.
E’ grazie a lei che sua figlia Marianna (nota giornalista televisiva) ha preso la stessa strada? Non direi proprio. Quando era piccola le chiesi cosa voleva fare da grande e lei mi rispose: “Tutto tranne quello che fai tu”. Poi, dopo la sua laurea, scoprii casualmente che aveva iniziato a lavorare come giornalista.
Le chiese spiegazioni? Mi disse che non voleva che mi impicciassi. E penso che avesse ragione. Lei ha costruito la sua carriera da sola ed è andata bene così. La regola è sempre stata che non ci poteva essere più di un Aprile per redazione.
Passiamo all’Abruzzo. Anche qui staremmo meglio soli? Pensi al terremoto dell’Aquila. Ci furono 309 morti e 85mila sfollati immediati. Per gli aiuti furono presi 4 miliardi destinati al sud, nulla da quelli destinati al Nord. Poi furono aumentate le accise. Qualche anno dopo ci fu l’alluvione in Emilia Romagna, che causò 4 o 5 morti e non più di 5000 sfollati. Per quell’evento le accise furono aumentate 5 volte tanto. Secondo lei un emiliano vale 5 abruzzesi?
E lei che rapporto ha con l’Abruzzo? Mia moglie si è operata all’Aquila due volte. Ci siamo sempre trovati benissimo. E’ la nostra seconda casa.
Dopo la Puglia. Sì, sono fieramente pugliese. Ma ci ho messo un po’ per capire che essere terroni è un orgoglio. A 20 anni ascoltavo i Beatles, Bob Dylan e i Rolling Stones, mentre mio padre ascoltava Matteo Salvatore, un analfabeta che non conosceva la musica, e la pizzica. Oggi ne riconosco il valore, ma ai tempi mi vergognavo di mio padre e dei suoi gusti. Ero anche io vittima del senso di colpa derivante dall’essere meridionale.
Quando è che il meridionalismo è diventato una questione identitaria? Nel corso del tempo, grazie allo studio. Tutto è iniziato un giorno della mia adolescenza, quando, passeggiando con mio padre a Gioia del Colle – il paese dove sono nato - lui mi indicò una casa non lontano dalla nostra dicendo che ci abitava un brigante. Ma nelle sue parole non c’era alcun giudizio. Io rimasi stupito, cominciai a studiare e capì che quell’uomo non era un brigante, ma soltanto un meridionale che non accettava di essere colonizzato. Allora è cominciato il mio percorso verso il meridionalismo.