Uccidersi per l’offesa alla propria dignità
Togliersi la vita per difendere la propria dignità offesa. È ciò che ha fatto un vigile urbano di Palazzolo, un paese in provincia di Brescia. È successo, la settimana scorsa: l’agente si è sparato un colpo di pistola alla testa. Era finito fra le polemiche per aver parcheggiato l’auto della polizia urbana in un posto riservato ai disabili a Bergamo. Preso di mira sui social, il vigile si era scusato e si era anche multato da solo. L’agente aveva anche postato un messaggio: «Non ho parole per esprimere il mio rammarico. Non era mia intenzione, ma purtroppo mi sono confuso con la segnaletica». Ma niente di tutto questo era servito a placare le accuse. «Una supplica scritta si respinge più facilmente di una presentata a voce, e un'ingiunzione si impartisce più a cuor leggero per iscritto che a voce», scriveva nel secolo scorso Walter Benjamin. «La parola dignità è ambigua», gli faceva eco Simone Weil. Ma chi può giudicare il dolore privato inferto da un’accusa ingiusta o esagerata, si chiedeva la mistica francese, rispondendo così al suo stesso interrogativo: «È impossibile immaginare che un uomo possa delegare a un altro il compito di giudicare se la conservazione di sé esiga di mettere in gioco o meno la propria vita».
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