Fatti e follie di Milano Fashion Week
Domenica scorsa, con la sfilata di Gucci, si è chiusa quella che si potrebbe chiamare Settimana della moda di Milano e invece si chiama Milano Fashion Week. Le più importanti case di moda italiane e straniere hanno presentato, per la primavera-estate 2020, quelle che una volta si chiamavano collezioni prêt-à-porter e ora si chiamano, chissà perché, ready to wear. Un’immersione totale in un mondo strano e sopra le righe, dove gli abiti si chiamano "outfit", le scarpe si chiamano "high-heeled" e "open-toe", le borse "clutch" e "hobo" e non sia mai che qualcosa abbia un nome seppur lontanamente italiano, in fondo che cosa c’entra mai l’Italia con la moda?
Fashion week è la passerella, dove la moda diventa provocazione (le modelle in camicia di forza di Gucci, le donne con tre seni di Gcds); e poi revival, citazione e autocitazione, come quando, per Versace, Jennifer Lopez riporta in scena, in un memorabile tripudio di opulenta morbidezza, l’iconico vestito jungle con cui catturò l’attenzione mondiale vent’anni fa. Il vestito era importabile allora e lo è pure oggi, ma in entrambi i casi è servito egregiamente allo scopo: diventare un simbolo perdurante nell’immaginario collettivo.
Fashion week è la strada: la folla di addetti, stilisti in erba, buyer e commentatori che si aggira per le vie di Milano combinata secondo le liquide regole dello streetstyle. Una roba che a dispetto del nome, con lo stile non c’entra proprio niente. Un mix di pezzi scombinati, apparentemente pescati a casaccio dentro armadi rigonfi di griffe, probabilmente a occhi chiusi. Streetstyle è indossare le ciabattine con i calzettoni da montagna; la gonna carta da parati con triplo top a stampa animalier, ma di molti animali diversi; il gonfio pellicciotto fucsia messo sopra alla tenda rubata temporaneamente in hotel (però con le scarpe di Prada). L’importante è spiccare, anche se è solo per far sgranare gli occhi dall’incredulità e si avrebbe voglia di andare lì a chiedere “ma come diavolo ti sei vestita?”.
Fashion week è il gruppo di modelle nascoste dietro enormi occhiali da sole. Sottili, emaciate e spettinate: anonimi manichini che prendono miracolosamente vita sotto le abili mani dei professionisti del look. Lontane anni luce dalle luccicanti top model degli anni 80, a cui non serviva neanche un cognome per essere riconosciute mentre passavano da una sfilata di Armani a un party di Lagerfeld.
Fashion week, quest’anno, è anche il compiacimento delle influencer, le Ferragni wannabe vestite a sbafo da stilisti noti e meno noti, rigorosamente in base al numero di follower, un tanto al chilo. Nuove guru di questa religione, con tanto di seguaci in numero tale che nessuna rivista può sognare di avvicinarsi. Guru con sponsorizzazione però, per cui il look non è un fatto di gusto, ma di ingaggio.
Le immagini rimbalzano su schermi, siti e riviste. Moltiplicate, studiate, replicate. Per questa settimana è finita, il circo riparte. Ci si rivede a Parigi, o meglio, a Paris!