CARTA MONDO
I robot ci rubano il lavoro?
Giorni fa sull’asse attrezzato di Pescara ho visto un rudimentale automa: un parallelepipedo montato su ruote dal quale partiva un braccio mobile munito di bandiera rossa. L’automa segnalava con ampi gesti del braccio meccanico una deviazione per lavori in corso. Ho pensato: ecco un altro posto di lavoro perso. Vecchia questione quella degli automi e degli effetti sul lavoro e sulla psiche dell’uomo. Nell’Ottocento Samuel Butler, il funambolico autore di Erewhon, sospettando che l’uomo prima o poi sarebbe diventato “schiavo felice delle macchine”, propose la distruzione di tutte quelle costruite nei 271 anni precedenti. Poiché avanzò questa proposta nel 1871, per Butler voleva dire tornare esattamente al 1600, prima dell’esordio sperimentale della macchina a vapore. Oggi sappiamo che la storia ha sconfitto l’utopia di Butler. Sappiamo allo stesso tempo che “l’uomo è antiquato” rispetto alle macchine, per dirla con Gunter Anders, che sarà difficile tenere il passo, e che forse è vera quella profezia di Jeremy Rifkin sulla “fine del lavoro”. Un destino che riguarderebbe non solo i lavori a più basso contenuto di conoscenza, ma anche i lavori cosiddetti innovativi, come si legge in un’inchiesta del Corriere Economia dal titolo “Disoccupati Hi-Tech”, in base alla quale entro il 2020 la distruzione delle competenze interesserà il 35 per cento della forza lavoro. E che “dal 45 al 60% della forza lavoro europea rischia di essere sostituita dai robot nei prossimi due decenni”, come avverte uno studio dell’istituto belga Bruegel. Per questo qualcuno comincia ad avanzare l’ipotesi di tassare i robot. Lo ha detto, per esempio, Bill Gates: “Se un lavoratore umano (notate l’aggettivo, ndr) guadagna 50mila dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolge lo stesso lavoro dovrebbe essere tassato allo stesso livello”. Non so voi, ma per me leggere questa frase di Gates è come affacciarsi sull’abisso.