Chieti, trentamila in silenzio sfilano con il Cristo Morto / FOTO E VIDEO

31 Marzo 2018

La Processione accompagnata da 100 cantori del Miserere e 150 violinisti. Il centro storico ritrova per un giorno suggestione, l'arcivescovo Forte: evento struggente

CHIETI. Venerdì Santo. Se sei di Chieti vuoi esserci. Con le note e l’emozione di sempre, rinnovate attorno a un corteo mesto e solenne di incappucciati che, all’imbrunire di un più che tiepido pomeriggio di primavera, si è allungato dalla cattedrale di San Giustino lungo le vie del centro storico. Palpabile, sin dal mattino, l’atmosfera di attesa per un rito che coniuga da secoli testimonianza di fede e orgoglioso sentimento di identità. «Un evento eccezionalmente struggente, vissuto con intensa partecipazione dalla città» lo ha definito monsignor Bruno Forte, cogliendo mirabilmente lo stato d’animo di quanti hanno magari pensato che valeva ancora la pena spostare, alla vigilia di Pasqua, la partenza per una vacanza. L’atmosfera della "Prucissione" si è dunque riproposta in tutta la sua solennità a partire, in mattinata, dalle ultime prove in cattedrale del Coro del Miserere di Selecchy diretto dal maestro Loris Medoro con Giuseppe Pezzullo maestro di cappella.

Un’attesa scandita da un preciso rituale attorno a quanto si muove dentro e fuori l’evento. Arrivano i turisti, si riempiono i parcheggi, non mancano foto e selfie nonostante le raccomandazioni di Giampiero Perrotti, governatore della seicentesca Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti, è una intera comunità quella pronta ad assieparsi lungo il percorso, che tocca i vecchi quartieri, in un lungo serpentone di simboli e devozione. Nel foyer del Teatro Marrucino il giornalista Mario D’Alessandro illustra la "Storia della Processione del Venerdì Santo a Chieti", c’è gente al Museo Barbella per la mostra dei bozzetti artistici del maestro Giuseppe Di Iorio, non ha dubbi il sindaco Umberto Di Primio: «Sicuramente l’evento più importante dell’anno per la nostra città. L’unico in grado di richiamare puntualmente persone lontane da tempo e di suscitare commozione anche in coloro che sono rimasti. Ogni chietino lo porta nel proprio Dna, insomma, e ricordo ancora il punto abituale, sotto i portici di corso Marrucino, dal quale, da ragazzo, assistevo con gli amici al passaggio della Processione». Ci siamo.

Un grande stendardo nero apre il corteo. Il percorso quello di sempre, si gira attorno a piazza Valignani e ci si tuffa per i vicoli con gli incappucciati delle 12 confraternite che portano a spalla, tramandandosi l’incarico di generazione in generazione, i sette simboli della Passione, opera dell'artista teatino Raffaele Del Ponte: il gallo, l’angelo, i dadi, la scala, le tenaglie, le lance, la Croce. Ed è il momento di consegnarsi a quel tumulto di storie personali scatenate da note che annunciano da lontano l’arrivo della Processione più antica d’Italia. Spiccano le tuniche nere con cappuccio e le mozzette d’oro dell’Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti attorno ai due simboli principali, le statue del Cristo Morto, ricoperto da un velo prezioso trapunto di gioielli, e della Madonna Addolorata che indossa un abito di pesante seta nera ricamata a fili d’oro, mentre ai lati, sotto la fiamma dei tripodi, si è infittita una folla muta e partecipe valutabile in circa 30mila presenze. Orgoglio e nostalgia, il tradizionale scambio di auguri, balconi affollati, un incredibile silenzio tra angoli, portici e piazzette, ora esiste solo quella struggente melodia, sorretta da 100 cantori e dal suono di 150 violini, potente e al tempo stesso dolce e carezzevole. Abito e basco scuro, la fiera compostezza di giovanissimi violinisti, gli occhi lucidi dei cantori più anziani e così, tra serrande abbassate e tanti palazzi vuoti, ecco che l’intero centro storico sembra ritrovare suggestione e dignità almeno per un giorno, scosso e impreziosito da quelle note che identificano una storia. Un canto che, dopo essere schizzato fuori da ogni angolo, ora si allontana lasciandoti dentro uno stato d’animo difficile da decifrare. «Mammà, quande so' grosse cante jé pure!...», così, rivolto alla madre, il bimbo che assiste alla Processione, intercettato tanti anni fa dalla sensibilità del poeta Raffaele Fraticelli. Si può tornare a casa, si può tornare ai parcheggi, si può ripartire per un posto di lavoro magari lontano. Per alcuni il piacere di aver partecipato a un suggestivo quanto intenso appuntamento religioso, per altri la sensazione di essersi lasciati andare ancora una volta ad un rigenerante tuffo nelle proprie origini.

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