«Ho un figlio disabile, aiutatemi»

7 Maggio 2011

Il dramma di un padre che chiede l'intervento di arcivescovo e prefetto

CHIETI. Un figlio che ha bisogno di te 24 ore su 24. Un mondo fuori troppo stretto per trovargli un posto, che significhi per lui porto sicuro. Una casa dove ci sia famiglia per sempre. Tarcisio Falcone ha 72 anni. Ventiquattro anni fa ha perso sua moglie, da allora ha tirato su i suoi tre ragazzi. Uno ha oggi 40 anni. E' disabile e dipende dalle cure del padre. Un genitore che sente le sue forze venir meno giorno per giorno. Per questo lancia un appello: «Aiutatemi».

Lo fa con clamore, come solo la disperazione spinge a fare, senza veli, senza reticenze. Prende carta e penna e scrive all'arcivescovo Bruno Forte e al prefetto Vincenzo Greco. Chiede il "Dopo di noi", una casa che accolga un piccolo gruppo di ragazzi come il suo, che offra loro le dimensioni e il calore di una famiglia. Chiede che lo aiutino. Non si fida più dei tanti politici che fanno promesse e non le mantengono. Al taccuino racconta il perché del suo gesto.

«Sono anni che tanti genitori come me chiedono il Dopo di noi", racconta Tarcisio, «ci hanno fatto promesse, si sono lavati la bocca, assicurandoci che l'avrebbero fatto da palchi pieni di applausi. Politici di ogni schieramento, quelli che ti conoscono quando vogliono i voti, poi spariscono o ti regalano solo parole al vento. Tutti, a destra, a sinistra, al centro. Anche le associazioni dei disabili, che in certe situazioni ti vengono incontro, sembrano tradire la fiducia che si ripone in loro e di fronte a questo problema non riescono a dare risposte».

La mattina e il pomeriggio un posto per questi ragazzi si trova, tra servizi che in alcuni casi hanno perso le convenzioni e sono diventati difficili da sostenere. Tarcisio descrive un sistema a camere stagne. «La mattina mio figlio ha un posto dove andare», racconta, «dove fare attività, così come nel pomeriggio». Poi viene la sera, la notte, i giorni di festa, gli attimi eterni di una solitudine che uccide. «Cosa accadrà», domanda Tarcisio, «quando non ci sarò più? Chi si prenderà cura di mio figlio?».

«Tanti anni fa, qualche tempo dopo la morte di mia moglie», continua, «lo portai in un istituto. Dopo due mesi è scappato fuori con la carrozzella, ha imboccato una discesa e non so come abbia fatto a restare in vita. Un episodio lo avevo scosso, e non ha toccato cibo per giorni». Ti guarda negli occhi e continua: «Questi ragazzi hanno bisogno di sentire il calore umano intorno, di ambienti sereni che li rassicurino in ogni momento. E' per questo che chiediamo da anni una casa famiglia, un posto dove andare insieme a vivere, quando siamo ancora in vita. In una famiglia allargata, che gli faccia sentire meno l'assenza di mamma e papà quando non ci saranno più».

China la testa, riprende fiato. Il tempo di chiedergli perché questa disperazione proprio ora. «Nel giorno di sabato santo», risponde, «è morto improvvisamente il giovane padre di una ragazza nelle stesse condizioni di mio figlio. Ora è la madre che se ne prende cura, ma dopo di lei? Dopo di me? Non ho risposta a questa domanda, vivo una situazione d'angoscia, vorrei ricevere qualche segnale positivo». Al taccuino consegna la lettera che ha lasciato al vescovo e al prefetto. Così recitano le ultime righe: «E' mio desiderio rivolgere l'appello anche alle persone più autorevoli della città ma vorrei poterlo estendere, tramite la sua persona, alle massime autorità nazionali: Papa, presidente della repubblica, presidente del Governo». Poi si gira e conclude: «Spero che qualcuno mi ascolti, prima che sia troppo tardi».

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