CHIETI

Occupa la casa popolare con il figlio di 6 anni: il giudice la assolve

Il volto umano della Giustizia. La donna, sfrattata e con a carico la madre disabile, si era autodenunciata «Non possiamo più dormire in auto». Riconosciuto lo stato di necessità

CHIETI. Elisabetta si è autodenunciata. Finita in strada dopo lo sfratto, senza soldi e con a carico un figlio di sei anni e la madre disabile al 78%, ha occupato una sgangherata casa popolare, rimasta vuota per la morte del precedente inquilino. Poi, ha telefonato alla polizia e ha confessato tutto, con sincerità assoluta: «Sono giorni che dormiamo in macchina, ma per la salute del mio bimbo e di mia mamma non potevo andare avanti così», è stato il senso delle sue parole.

Ieri pomeriggio, a distanza di due anni e sette mesi, Elisabetta M., teatina di 37 anni, è stata assolta dal giudice monocratico del tribunale di Chieti, Luca De Ninis, perché «il fatto non costituisce reato». È passata la linea della difesa, rappresentata in aula dall’avvocato Manuela D’Arcangelo, che ha invocato la scriminante dello «stato di necessità». Anche il vice procuratore onorario Roberta Capanna aveva chiesto l’assoluzione per «particolare tenuità del fatto».

Quella mattina di febbraio 2022, dopo notti insonni all’interno di un’automobile, insieme al suo bambino e alla madre invalida, Elisabetta si è trovata davanti a un bivio: condannare i suoi affetti più cari a trascorrere altre giornate al freddo oppure trovare una soluzione immediata. Lei, in attesa da tempo di una casa popolare, ha scelto la seconda opzione, anche a costo di beccarsi una denuncia e di perdere ogni diritto nella graduatoria per aspirare a un appartamento “regolare”.
In concreto: Elisabetta ha deciso di introdursi abusivamente in un alloggio di Chieti Scalo, in via Colonnetta, in carico all’Ater, l’azienda territoriale per l’edilizia residenziale. Parliamo di una casa in pessime condizioni, tant’è che l’ente proprietario – a distanza di circa sei mesi dalla morte dell’uomo che viveva nell’immobile – non lo aveva ancora riassegnato perché necessitava di corposi lavori (tuttora non eseguiti). Ma quelle quattro mura, pur essendo umide e ingiallite, le sono apparse l’unica alternativa percorribile. Una volta entrata con figlio e madre in quell’abitazione malridotta, Elisabetta ha digitato il 113 e raccontato la sua storia. Sul posto sono arrivati gli agenti della squadra volante, ai quali la donna, con le lacrime agli occhi e la voce rotta dall’emozione, ha spiegato le ragioni del suo gesto disperato.

Il resto è storia recente. Ieri mattina il caso è giunto in tribunale per l’udienza conclusiva. Uno dei poliziotti intervenuti in via Colonnetta ha ripercorso la vicenda, mentre la dipendente dell’Ater che si è occupata della pratica – rispondendo a domanda specifica dell’avvocato difensore – ha ammesso che, pur essendo quella una situazione di emergenza, l’iter per assegnare alla famiglia di Elisabetta un alloggio non si sarebbe concluso prima di tre o quattro mesi. Nel pomeriggio, è arrivata la sentenza: secondo il giudice, Elisabetta non può essere punita, perché è stata costretta ad agire in quel modo versando in uno stato di bisogno. È il volto umano della Giustizia.
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