Beccalossi il fantasista: forse ho vinto poco ma nel calcio mi amano
Il genio del dribbling con il libro “La mia vita da numero 10” in tour in Abruzzo: «Ho fatto quello che sognavo da piccolo»
PESCARA. Un mito per i tifosi dell’Inter. Un campione incompiuto per gli altri. Anche per lui, Evaristo Beccalossi, 68 anni, bresciano con uno scudetto (1979-80), due Coppa Italia (una con l’Inter, l’altra con la Sampdoria) in bacheca e... tanti rimpianti. Si racconta in “Evaristo Beccalossi: la mia vita da numero 10” edito da Diarkos e scritto insieme a Eleonora Rossi, con la prefazione di Enrico Ruggeri, amico del Becca e autore di una canzone dedicata a lui che, non a caso, si intitola “Il Fantasista”. Il libro è un racconto in prima persona, pieno di aneddoti, incontri, sensazioni, trasgressioni ed emozioni di un giocatore degli anni Settanta- Ottanta che, partendo dalla sua Brescia, ha saputo far cantare a tutto San Siro il suo nome. Sabato sarà ad Atessa, un’altra tappa abruzzese del tour di presentazione. Tanto per inquadrare il personaggio, il compianto Gianni Brera lo chiamava Dribblossi, perché era un giocatore molto tecnico che amava scartare i giocatori avversari, gli piaceva dribblare chi aveva davanti, persino i pali e i fotografi, anche il pubblico in curva, come ironizza Paolo Rossi. Giocatore geniale e senza regole, non rinunciava al buon cibo, al piacere di una sigaretta, alla scappatella in qualche locale, odiava i ritiri (quale calciatore li ama?) con quelle serate interminabili passate a giocare a carte. Lui preferiva evitare i chilometri di corsa previsti nei ritiri estivi dal sergente di ferro Bersellini salendo su un’Ape Piaggio di un panettiere della zona; nel libro racconta delle sue «marlborine» fumate appena possibile, dell’alimentazione spesso non proprio in linea con i dettami della vita d’atleta. E dell’amicizia fuori dal campo con Hansi Muller e la rivalità sul terreno di gioco. Ma la sua non era voglia di trasgredire, era semplicemente la necessità di vivere la propria libertà senza costrizioni. Nel 1991, a 35 anni, appende le scarpette al chiodo e si mette a fare il venditore per un’azienda, proprio tutta un’altra vita. Beccalossi non è il tipo da fare l’allenatore, non fa per lui lavorare tutti i giorni in mezzo al campo senza giocare la domenica, quindi nel calcio rientra prima come consulente per il Lecco, poi come commentatore sportivo, infine come dirigente delle squadre nazionali.
Beccalossi, com’è la vita da numero 10?
«Eleonora Rossi è stata brava a ricostruire la mia vita. Il numero 10 è un fantasista che, nel mio caso, ha la fortuna di fare quello che era un sogno da bambino. Libero di fare quello che vuole in campo e fuori. Oggi si vive di immagine, guai a sgarrare. No, a me le regole non piacciono molto».
Perché scrivere un libro?
«Non avevo questa esigenza. Ma Eleonora Rossi me lo ha proposto e mi è sembrata una buona idea. Mi ha permesso di tornare indietro nel tempo e rivivere la mia vita. Anche di consolidare il feeling con i tifosi».
L’emozione più bella?
«Per me che venivo da un paesello, essere in mezzo al campo al Meazza e sentire 80mila tifosi che gridano il mio nome non ha prezzo. Non un gol, non una vittoria, ma l’ovazione della gente».
Perché non è rimasto nel mondo del calcio?
«Diciamo che ci sono rimasto a modo mio. Sono capodelegazione delle Nazionali under 19 e 20. Abbiamo vinto un Europeo. Faccio parte della Fifa Legend. Ma non sono il tipo che si sa vendere. Credo di aver fatto bene. I vari Ricci, Fagioli e Raspadori che sono in Nazionale da Spalletti in precedenza li ho avuti io».
Nel 1982 mezza Italia la voleva in Nazionale, ma Bearzot non la portò in Spagna nel gruppo che vinse il Mondiale.
È vero che ho vinto poco, calcisticamente parlando. Però, non ho rimpianti. Quell’estate andai a Montecarlo, facevo il commentatore televisivo. Tutte le sere con donne diverse, altro che Mondiale...»
L’allenatore che le ha dato di più?
«Senz’altro il compianto Bersellini. Mi massacrava, ma sapeva tirare fuori il meglio dal sottoscritto. Mi ha insegnato che nella vita bisogna sudare e che nessuno ti regala niente. Solo che a 22 anni pensavo ad altro».
Oggi la sua Inter com’è?
«Sta facendo un percorso. Ha due assi: Marotta in società e Inzaghi in panchina. E poi un bel gruppo. C’è compattezza e questo per l’Inter, da sempre pazzarella, è un valore aggiunto».
Con chi è rimasto più legato nel calcio?
«Gabriele Oriali è il mio fratellino. Una persona che stimo tutt’ora, un leader silenzioso come piace a me. Ci sentiamo spesso».
Che rapporto ha con l’Abruzzo?
«Sono stato spesso da voi ultimamente. Anche perché sono amico di Ettore Serra, l’ex patron del Chieti. Mi sembra che abbia ceduto la società. Ma mi sembra che quella di Chieti sia una bella piazza per fare calcio, vale almeno la Lega Pro».
Chi la marcava bene?
«Nessuno in particolare, spesso dipendeva da me. Con la Juve mi esaltavo. Avevo sempre bisogno di uno stimolo, di una scintilla per brillare in mezzo al campo».
Che cosa le dà maggiore soddisfazione oggi?
«Questo libro mi ha fatto capire che ho lasciato un bel ricordo nella gente. E che dopo 40 i calciofili mi voglio ancora bene».