Guerritore: noi donne impariamo da piccole la sofferenza, l’uomo no
L’attrice chiude il Fla con lo spettacolo “Quel che so di lei” sguardo sul primo femminicidio finito sulle cronache (1911)
PESCARA. Dal primo femminicidio raccontato dalla stampa italiana, l’uccisione della contessa Giulia Trigona per mano del suo amante nel 1911 in una squallida pensioncina di Roma, fino ai tragici fatti di cronaca che riempiono oggi le pagine dei giornali e i programmi televisivi con i volti e i nomi delle nuove Giulia: Cecchettin, Tramontano, solo per citarne alcune. Un copione rimasto inalterato nei secoli, con gli uomini che si trasformano in carnefici e le donne in vittime di violenza.
A portarlo in scena, scavando negli antri più profondi della psiche delle donne, è l’attrice Monica Guerritore. “Quel che so di lei: donne prigioniere di amori straordinari”, stasera al teatro Massimo di Pescara (ore 21) chiude la 22ª edizione del Fla – Festival di Libri e Altrecose.
Signora Guerritore, da allora ad oggi lo schema sembra non cambiare mai. Perché?
«I giovani maschi, nonostante siamo nel 2024, sono ancora sotto l’influenza di una gravità culturale, che funziona proprio come la gravità della fisica: sentono ancora il peso e non si sono liberati dal retaggio che un uomo non possa essere abbandonato o lasciato da una donna. Ne soffre la loro virilità, l’essere capofamiglia e pater familias, il centro del nucleo. Questa è una delle cose più difficili da sradicare nei giovani. Un altro aspetto è la mancanza di formazione nell’imparare ad accettare fin da piccoli il no, il rifiuto e la perdita».
Le donne invece in cosa sono differenti?
«Noi donne impariamo fin da piccole a soffrire, abbiamo una capacità diversa di contenere il dolore. Siamo segnate da dolori fisici: le mestruazioni, il parto, il lasciare andare i figli quando diventiamo madri. Ci sono continue sollecitazioni dal punto di vista doloroso. Invece i maschi sono più protetti e, proprio per questo, è quasi impossibile per loro pensare che quel dolore, naturale, che avviene nel momento in cui una donna ti lascia, possa un giorno sparire. Invece noi donne sappiamo che si soffre tantissimo, ma poi dopo si guarisce. Noi donne siamo così forti che possiamo anche sopravvivere alla morte di un figlio, perché sappiamo che la vita è più importante di tutto».
Esiste una possibilità di riscatto da parte delle donne?
«Non è un problema di riscatto da parte delle donne: è un problema di educare a dei piccoli no, in modo che i maschi si abituino fin da piccoli che dopo questi no si continua a vivere. Noi donne non dobbiamo riscattarci, ma considerare l’amore con dei limiti».
Qual è il limite tra amore e possesso?
«C’è un momento in cui questo amore diventa umano e non più straordinario: l’uomo che hai tanto amato da principe azzurro diventa un assassino perché non si controlla. E allora bisogna tenere gli occhi aperti, guardare il pericolo e non avere paura di rendere ordinario un amore che tu pensavi straordinario».
È il caso della contessa Trigonia che decide di andare a quell’appuntamento con l'amante che aveva deciso già di lasciare?
«Lei vive un amore straordinario, dice a chi la mette in guardia di non andare “non si preoccupi, non mi farà del male”. Pensa di avere di fronte un uomo che, avendola amata, l’avrebbe anche protetta. Ma l’amore non protegge nessuno. Lei non ha voluto, non ha potuto guardare negli occhi il male che può arrivare da una persona che ti ha amato. Quante volte sentiamo di mogli uccise da uomini normali, che hanno amato per anni e che poi, nel momento in cui la donna decide di cambiare vita, diventano altro, non sopportano quel dolore, vanno a comprare un coltello e ammazzano».
Di Giulia ce ne sono tante, cito su tutte Giulia Cecchettin.
«L’amore straordinario è proprio questo: Giulia Cecchettin era buona, aveva amato quel ragazzo e non si rassegnava all’idea di trattarlo come un estraneo, le faceva anche un po' pena e va a quell’ultimo appuntamento a cui invece non doveva andare. Noi donne ci dobbiamo difendere, così come avviene per un tumore al seno: ci controlliamo e andiamo dal radiologo per una diagnosi precoce. Dobbiamo fare lo stesso con un uomo che può diventare violento: bisogna stare attente e proteggersi».
Torniamo al testo teatrale, quanto c’è di letterario e quanto di autobiografico nelle donne che porta in scena?
«Molto di letterario e molto di autobiografico. In “Quel che so di lei” c’è una donna adulta, di 38 anni e con due figlie grandi, una donna matura e una moglie felice, che arriva a farsi ammazzare nell’albergaccio da un tenente qualunque. Il racconto delle sette stazioni che lei ha attraversato sono racconti tratti da spettacoli che io ho fatto. Il tradimento del marito è la prima porta, il primo momento fatale che la porta a uscire dal matrimonio; il secondo è la perdita dell’infanzia e dell’innocenza con l’uscita dal giardino dei ciliegi. Poi c’è l’incontro con il giovane, la consegna e il sesso, un modo per tornare a vivere e ritrovare un calore disordinato, che non è eros, ma il racconto di un vuoto, la fame di qualcosa, ed ecco quindi la Lupa. Poi c’è Madame Bovary che è l'illusione di consegnarsi agli altri per tornare a vivere e la caduta o la discesa in cucina della signorina Giulia che si consegna al suo cameriere. Ma Giulia Trigonia riacquista una sua razionalità, esce da questa febbre e dice no: nella penultima stanza ci sono Carmen e Oriana Fallaci, le donne scappate, che dicono “no”. Infine, la stanza numero sette: la protagonista si sente forte, non ama più e accorda l’ultimo appuntamento, credendo che l’uomo sia sereno come lei. E invece lui era già andato a comprare un coltello, chiedendo lo sconto».