I “cafoni” di Ignazio Silone in scena al Ridotto all’Aquila

16 Marzo 2022

Domani e venerdì, cinque attori daranno voce agli abitanti di “Fontamara” Una produzione Tsa-Lanciavicchio, nell’adattamento di Francesco Niccolini

La storia dei “cafoni” di Fontamara va in scena, domani alle 21 e in replica venerdì alle 17.30, per la Stagione Teatrale Aquilana del TSA, al Ridotto del Teatro comunale all'Aquila. Riprendono così vita i personaggi del romanzo di Ignazio Silone (nella drammaturgia di Francesco Niccolini, costumi e scenografie Scenotecnica Ivan Medici, musiche originali Giuseppe Morgante, regia Antonio Silvagni), grazie ai cinque attori “cafoni” Angie Cabrera, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio e Giacomo Vallozza del Lanciavicchio, che danno voce, di volta in volta, a tutti, vittime e carnefici.
«Torno a Fontamara», racconta l’autore Francesco Niccolini, «trentacinque anni dopo il mio primo viaggio. Allora avevo 15 anni: la forza disperata dei tre testimoni protagonisti del capolavoro di Silone non mi ha mai abbandonato. Quello stile piano, colmo di dignità e al tempo stesso di umiliazione, l’ironia della scrittura e la ferocia dei potenti. I privilegi dei ricchi, la loro ingordigia, la presa in giro spietata di un mondo destinato al genocidio. Perché un genocidio è stato. Solo che allora non avevo gli strumenti per capirlo». «Quando vent’anni fa ho avuto la fortuna di lavorare con Marco Paolini e Gabriele Vacis al Racconto del Vajont», spiega ancora Niccolini, «uno dei capitoli più duri da studiare, esempio di coraggio e forza morale, è stata la lettura dell’arringa dell’accusa, scritta dall’avvocato Sandro Canestrini, che ne fece un autentico pamphlet, Vajont: genocidio di poveri. Ecco, tornando a Fontamara, penso che questo romanzo capolavoro sia un capitolo fondamentale per raccontare quel genocidio. Insieme agli attori “cafoni” come si definiscono loro stessi del Lanciavicchio e al regista Silvagni, provo a portare quelle voci e quei fantasmi sul palcoscenico».
«Fontamara è un romanzo spietato», spiega invece il regista Antonio Silvagni, «che ho amato, che dovevo amare, perché raccontava della mia terra. Ma qualcosa mi allontanava da Silone: sentivo che la commozione che io provavo per i cafoni non intaccava minimamente Silone e lo trovavo inspiegabile e insopportabile. L’autore non lascia trasparire mai pietà per i cafoni, che vivono in condizioni disumane, vengono imbrogliati, sbeffeggiati, sfruttati, violentati, uccisi. Silone non è mai indulgente con loro, con le loro meschinità dettate da ignoranza e miseria. Poi, colpevolmente in ritardo, ho capito che una delle forze del romanzo è proprio questa assenza di indulgenza, questa scelta di sradicare ogni forma di pietà dalla narrazione verso l’ineluttabile destino di morte: il solo modo di raccontare una società che per affermarsi ha bisogno di calpestare i più deboli. L’ assenza di commozione è la strada che intraprende Silone per commuovere, per commuoverci e “farci muovere verso”». E, come spiega ancora il regista, «far muovere qualcuno attraverso l’arte in un momento storico di coscienze assopite come quello in cui visse Silone era un grande obiettivo. A lui è riuscito, e riesce ancora a quasi un secolo di distanza».
Quello in scena stasera è, per scelta degli autori, uno spettacolo asciutto, rigido, duro, molto vicino allo stile scelto da Silone. Uno spettacolo senza pietà: senza pietà per i cafoni e la loro storia, senza pietà per gli attori inchiodati sul palco a dar vita a cento vite. E senza pietà per chi, da spettatore, è abituato, invece, ad ammiccamenti e moine. Il lavoro è una produzione Tsa in collaborazione con il Lanciavicchio, il Premio Silone e il Comune di Pescina.