I miracoli italiani “dimenticati” e la «democrazia stanca»: con Augias “La vita s’impara”

17 Ottobre 2024

Lo scrittore ritira il Premio internazionale di Narrativa “Città di Penne” e cattura la platea con la sua storia e la storia di un’Italia «cambiata e sofferente»

PENNE. «L’Autostrada del Sole costruita in 6 anni. La Costituzione. Sono questi i due capolavori della Repubblica italiana. Avete visto il bel film della Cortellesi? Il primo voto alle donne è il primo che realizza la democrazia. Una democrazia oggi stanca».
Sala affollata, il Chiostro di Penne pieno come un uovo, caldo, un giovane sviene in sala per emozione e affollamento. Il discorso con cui Corrado Augias ritira il Premio internazionale narrativa “Città di Penne” sotto le volte a crociera della sala consiliare, nel silenzio quasi magico, diventa una lectio magistralis sulla democrazia. Un discorso pieno di cultura, ironia, anche disincanto, un uomo che guarda il passato con lucidità e il presente quasi con tenerezza. E che parla di politica. Quella vera, illuminata da un pensiero libero. Il suo ultimo libro, La vita s’impara (Einaudi), diventa il pretesto per un affresco sull’Italia contemporanea. È il suo secondo “Penne” dopo quello del 1995 assegnato a “Quella mattina di luglio”, «un Premio alla carriera», dirà il direttore scientifico del Premio, Antonio Sorella, con il giornalista, scrittore, conduttore televisivo, drammaturgo classe 1935 con ironia: «Sono a un passo dal premio alla memoria». Augias si fa in due: in mattinata parla all’Università d’Annunzio, a Chieti, il pomeriggio a Penne. Perché “La vita s’impara” è sì un memoir, sì un’autobiografia, ma è anche e forse soprattutto un romanzo di formazione della società italiana. Con i maestri, gli autori più amati, i filosofi, persino «un mio vecchio professore del liceo cui forse devo il mestiere che ho fatto nella vita». E racconta sorridendo: «Un collega di Parma ha scritto: “Questo libro è la costruzione di un cittadino nell’Italia che cambia”, e io gli ho detto che avrei rubato questa definizione che trovo perfetta». Interviene una docente di Italianistica con una domanda. E lui: «Rispondendo alla professoressa Tatti voglio provare a descrivere cosa si impara a ripercorrere una lunga esistenza attraverso la scrittura. Pescare e dare ordine alla memoria mettendo fatti in successione che riguardano un ragazzo, poi un giovane, un uomo, quindi un vecchio», ricorda il giornalista, «significa attraversare un Paese che a mano a mano cambiava la sua fisionomia. È stata la prima cosa di cui mi sono accorto, scrivendo. Il cambiamento è la prima cosa di cui mi sono accorto».
E gioca sul filo del paradosso col pubblico: «Noi qui, e 60 milioni di persone fuori, non abbiamo nulla a che vedere con gli italiani di 80 anni fa, siamo profondamente cambiati, sia nell’aspetto fisico – siamo più alti più belli mangiamo meglio, ci laviamo di più, facciamo sport, siamo all’apparenza più gradevoli….» E il direttore del Premio Antonio Sorella al suo fianco azzarda: «Studiamo anche di più...?». E Augias caustico: «Su questo ho i miei dubbi». «È stato tutto positivo? Sì e no. La parte positiva si capisce al volo, la negativa va un po’ raccontata. In tutto questo cammino che ci ha portato sì avanti noi abbiamo perso parecchio, abbiamo perso dei punti di orientamento che quando io erano un ragazzo erano punti fermi, solidi, politici. C’erano due grandi partiti che si dividevano l’80 per cento del favore dei cittadini, la Dc e il Pci, ma erano due blocchi, e lo sono rimasti per più di mezzo secolo. Poi c’era la Chiesa era un altro punto di riferimento solido: nel bene, per tutto quello che poteva fare di bene, nel male, io non sono cattolico», ricorda, «per un’invasione, una intrusione spesso sfacciata negli affari dello Stato, cosa che non andava fatta, ma è stata fatta. Tutto questo oggi non c’è più. Questo il grande cambiamento. È intellettuale, mentale più che politico».
E i perché sono presto detti: «Dal 1994 noi italiani sembriamo presi da una specie di febbre che ondeggia. Quando cadde il sistema che aveva retto questo Paese dal Dopoguerra, tutti a votare Berlusconi, poi Grillo, poi Renzi, poi Meloni: grandi flussi che oscillano non da un partito a un altro, ma da una personalità a un’altra. Questo dice la profondità del cambiamento che è intervenuto: non ci sono più punti di riferimento ideologici, politici ai quali guardare». Quindi analizza: «Oggi ci sono dei capi partito ai quali guardare e dei quali poi disinteressarsi per la loro inefficienza, per delusione; innamoramenti di uno, due anni, che si sciolgono. A parte il povero Berlusconi che è morto, Renzi prese il 40% e oggi conta 2%, Grillo sembrava doversi trascinare l’Italia sulle spalle e invece... Non voglio fare altri esempi perché si va nell’attualità e non lo voglio fare». Quindi prosegue: «Un Paese che perde ogni riferimento solido è un Paese che soffre», osserva. «Noi soffriamo, ma non siamo soli, la Francia sta male, l’Inghilterra uscita sciaguratamente dall’Europa sta malissimo, la grande Germania... E gli Usa! Pensate», dice portandosi pollice indice e medio uniti alla fronte: «concorre alla Casa bianca un uomo che pochi anni fa incitava le folle ad assaltare il parlamento, una cosa inaudita, senza precedenti non solo negli Stati Uniti. Cosa vuol dire questo?».
l’affondo: «Che la stanchezza nostra è un po’ una stanchezza generalizzata: è la stanchezza della democrazia». Adesso è quasi teatrale: «Ho il sospetto che un ragazzo, una ragazza oggi tra 18 e 30 anni non vantino appieno quale è il valore tranquillizzante, al limite della noia, di un sistema democratico: non si va sulle barricate, non ci si accende per una passione, si fanno altre cose. Non c’è quella energia politica che nel Dopoguerra ha guidato il Paese». Fa un esempio cotando le dita: «Pensate all’autostrada del Sole in una Italia di valli e montagne, opera ingegneristica spaventosa fatta in sei anni! E noi, oggi, è da trenta che parliamo del ponte sullo stretto, buttando miliardi in un pozzo senza fondo per costruire in un luogo sismico pericolosissimo». Ma si torna alla morale: «Questa massa di cambiamenti: fisici, psicologici, politici, ci ha reso un popolo diverso da quello che eravamo. Io» sospira «un uomo vecchio, mi riconoscevo in quella Italia: ho vissuto anni all’estero, ma ora ci vado malvolentieri per legge di natura. Ecco io oggi mi riconosco in questa Italia cambiata con dolore, con rammarico, soprattutto se penso a tutto quello che abbiamo fatto insieme e a tutto quello che non abbiamo fatto». E poi i riferimenti che si rimpiangono: «ll rettore di Chieti diceva oggi: se qualcuno impara c’è qualcuno che insegna. Vero. I grandi miei insegnanti sono stati il professore di letteratura del liceo. Forse gli devo l’aver fatto questo lavoro.
L’altro miracolo italiano è «la Carta costituzionale», dice Augias accompagnato da un lungo applauso del pubblico: «Siamo usciti dal disastro del fascismo a pezzi. Io chiamo Mussolini criminale per due ragioni: le leggi razziali del 1938 e la dichiarazione di guerra nel’40. Vorrei che queste mie parole calassero come un piombo in questa sala: noi, 310mila chilometri quadrati dalle Alpi alla Sicilia, abbiamo dichiarato guerra agli Stati uniti d’America! Il Paese era a pezzi e abbiamo dichiarato guerra!». Ed ecco il miracolo: «Pensate al film della Cortellesi. Bisognava scegliere tra il re fellone che aveva macchiato la patria, e la Repubblica. Ed eleggemmo la Costituente: l’assemblea si riunì per tutto il ’46 e con un miracolo di compromessi, in un Paese sfinito dalla guerra, a pezzi fisicamente – case crollate, ferrovie distrutte, linee elettriche inesistenti – scrissero la nostra Carta dei diritti e anche dei nostri doveri, a cominciare della tasse. I primo gennnaio del ’48 quella Costituzione fu promulgata. Anche tutto questo è un insegnamento!».
Non vorrebbe arrivare all’attualità politica, ma poi non resiste: «Fatemela sfiorare, parlando della Costituente: non si può governare rivendicando continuamente una supremazia, una ostilità; chi governa deve pensare, almeno concettualmente, di farlo in nome di tutti, anche di quelli che non l’hanno votata». Giù un altro applauso: «Deve, perché si tratta del capo di un governo, non di un capo fazione, specialità in cui ci siamo a lungo allenati, ma di tutti. I governanti dovrebbero ricordarlo sempre invece di rivendicare con rabbia insistente vecchie esclusioni». Conclude «Questa massa di insegnamenti è ben ricostruita nella formula: “la costruzione di un cittadino nell’Italia che cambia”. Ne sono grato».
LA TELEVISIONE Gli chiedono cosa pensi della sfida (per ora vinta due volte su due) con Massimo Giletti, che adesso va in onda su Raitre (contro la sua Torre di Babele). Lui sospira: «Devo dire la verità, ho affrontato una sfida che era rimasta in sospeso da quando la Rai, e in particolare Rai 3, sono state fatte degenerare da un cambiamento che doveva eliminare la “televisione comunista” e invece sta eliminando la Rai tout court». Pausa, applauso, platea attentissima: «Quale è la natura di questa sfida? Cercare di fare una televisione colta che abbia, nei limiti di una tv piccola, artigiana, la funzione precisa di diffondere programmi di alto contenuto culturale in prima serata. Una sfida clamorosa, che forse neanche Angelo Guglielmi, il mio primo maestro, avrebbe avuto il coraggio di fare e che invece la piccola La7 ha avuto il coraggio di fare, e ci sta riuscendo; un milione e mezzo di persone, che è tanto, che crede in una televisione non di urla, e questo un buon segno: credono in programmi di opinioni espresse anche nel dissidio con pacatezza. E dunque» sorriso «andiamo avanti». La vita si impara è uno slogan, perfetto anche per un ragazzo di quasi novantanni che, con grandissima eleganza, ama sempre duellare, di fioretto. E all’occorrenza di sciabola.