L’America, Trump, Musk, Rousseau “War”, per non parlarne a vanvera
Bob Woodward, il giornalista del Watergate, raccoglie testimonianze, fatti e conversazioni segrete e scrive una bibbia per sapere e capire cosa è successo in questo mondo dal febbraio del 2022 a oggi
Tutti i giornali del mondo (e le radio e le televisioni e i social e i bar dello sport) si affannano a spiegare oggi quello che non avevano capito ieri. Così, anche nolenti, siamo costretti a leggere da chi non lo sa, quale sia il motivo per cui Trump ha vinto e quelli per cui Kamala ha perso. E poi sentire che la vice - Biden non è stata in grado di intercettare il blablablà grido di dolore dell’America profonda blablablà, mentre Trump aveva capito blablablà che l’aumento del prezzo delle uova è il motivo che ha scatenato la rabbia della classe media e che blablablà la colpa è dell’inflazione e che blablablà gli islamici e la questione palestinese. Blà.
Insomma, mentre ci rammarichiamo per non aver visto arrivare il puzzone (ebbasta! ma non c’è un’altra figura retorica?) ci viene in mente che forse il giornalismo non è questo. Non è l’opinione tardiva di chi non sa cosa sia successo. Né è l’affanno retorico di chi immagina un mondo tutto suo, scrivendo da una scrivania in compensato, ma effetto frassino. Giornalismo è andare, sedere, ascoltare e vedere. Capire, ordinare e riferire. Quello, cioè, che da oltre cinquant’anni fa Robert Upshur Woodward, detto Bob, l’uomo che insieme a Carl Bernstein fiutò il tanfo che veniva dalla Casa Bianca di Richard Nixon. E che, come un boa costrictor, si avvicinò alla poltrona dell’uomo più potente del mondo, la avvolse nelle spire delle domande più scomode e la lasciò libera di stritolarsi con le sue stesse mani.
Proprio lui, Woodward: quello del Watergate, quello che portò il Presidente Nixon alle dimissioni e che incise per sempre il suo nome nell’albo di platino della democrazia. Quella vera. Quella fatta di poteri, contropoteri, libera stampa, libere istituzioni. Oggi, alla soglia degli 82 anni, Bob Woodward dà ai tipi di Solferino un nuovo libro. Il Centro vi ha regalato, ieri, il prologo dell’ultima opera della firma più prestigiosa del Washington Post: un’intervista realizzata al vecchio ma anche nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Solo l’assaggio di War, un libro che va letto come un giornale, consultato come un dizionario, conservato come una bibbia per chi voglia sapere e capire cosa è successo in questo mondo dal febbraio del 2022 a oggi. War, guerra.
O, meglio, guerre, perché Woodward muove dal tragico abbandono dell’Afghanistan che l’amministrazione Biden realizzò troppo alla leggera per raccontare la guerra d’Ucraina prima e giungere, poi, alla crociata di Benjamin Netanyahu contro un mondo e quell’altro. Qui si vede cosa vuol dire scrivere di fatti. Date precise, episodi ignoti, conversazioni riservate. E come questi si intersecano con i summit istituzionali e le vicende già note e pubblicate. Proprio dall’intreccio tra la storia (quella che tutti conosciamo de relato) e le storie che Bob Woodward ha raccolto e che sono «frutto di centinaia di ore di interviste a partecipanti e testimoni diretti di questi eventi» nasce la possibilità di capire i fatti e di poterne parlare. Come? Come il nostro giornalismo non fa, abituato com’è a raccontare per sentito dire da chi aveva sentito dire.
L’importante è farlo aggredendo l’avversario del momento perché, si sa, fa audience, fa share. In cima a War c’è la pistola di ‹echov. La spiega bene l’autore: «”Se una pistola compare nel primo atto di un dramma, sta lì per un motivo preciso e a un certo punto sparerà”, aveva scritto nell’Ottocento il famoso drammaturgo Anton ‹echov ». La ricerca del perché della pistola e del quando sparerà è il mestiere del giornalista. Le pagine di War sono una lunga visita londinese a Madame Tussauds, il museo delle cere in cui ci si imbatte in re e regine, assassini famosi e presidenti famigerati, premi Nobel e tratti somatici noti, anche se non ci si ricorda bene a chi corrispondano. Noi sappiamo, però, che li conosciamo, di dritto o di rovescio, perché sono quelli che hanno fatto la storia che attraversiamo e dipinto o scolpito il mondo che viviamo. Passando per i corridoi bui delle gallerie di cere, li riconosciamo come famigli muti. Da Woodward, invece, quei volti cerati parlano. Lo fanno sullo sfondo di una Washington sempre più misteriosa, sempre più capitale del mondo, sempre più groviglio di vipere e interessi, malgrado chi si affanni – ancora e fuori tempo – a parlare di declino dell’impero americano. Nel 1750, Jean Jacques Rousseau partecipò a una tenzone letteraria bandita dall’Accademia di Digione. I candidati erano chiamati a dissertare sul tema “Se il progresso delle scienze e delle arti avesse contribuito a purificare o a corrompere i costumi”. L’enciclopedista svizzero era convinto che l’evoluzione tecnologica e culturale fosse niente più che uno strumento nelle mani degli autocrati, che lo utilizzano per meglio esercitare il loro potere oppressivo e tirannico, corrompendo i costumi. O tempora o mores. Il filosofo Rousseau era nato, guardacaso, a Genève (Ginevra) in Svizzera sul lago di Lemano. E guardacaso, nella Genève del nuovo mondo, in Illinois e non distante dalle rive del lago Michigan, è nato Bob Woodward. Lui che ha premesso, con molta curiosità intellettuale alla sua ricostruzione sulle guerre del nuovo millennio, una oscura frase di George Kennan, «diplomatico americano e padre della dottrina del containment, secondo cui gli Stati Uniti dovevano bloccare con fermezza l’espansione dell’Unione Sovietica».
L’epigrafe è: «Le invenzioni meccaniche e scientifiche dell’uomo moderno tendono a occultargli la natura della sua umanità e a incoraggiarlo verso ambizioni e illusioni prometeiche di ogni tipo». Troppo ghiotta questa riflessione fuori contesto per trascurarla e non pensare che Woodward l’abbia dedicata, 225 anni dopo Rousseau, al vero grande problema che la rielezione plebiscitaria di Donald Trump porta con sé e dentro di sé: la compagnia inquietante dell’uomo più ricco del mondo che, con il dominio sulle nuove tecnologie, informa l’informazione con la sua piattaforma X. Quella in cui menzogne e verità si abbracciano indistinguibilmente, mescolando in un unico polpettone suggestioni, dichiarazioni, idee, fatti e fake, sogni e incubi. Lo stesso uomo, Elon Musk, che controlla i controllori, possedendo i satelliti che si usano per puntare i missili sui loro obiettivi. Forse è anche per questo che Woodward scrive che «Donald Trump non solo è l’uomo sbagliato a ricoprire la carica di presidente, ma è anche inadatto a guidare il Paese. Trump è stato ben peggiore di Richard Nixon, il presidente che, come la storia ha dimostrato, era un criminale. Come ho già sottolineato, Trump ha governato con la paura e la rabbia. E l’indifferenza verso l’interesse pubblico e nazionale. Trump è stato il presidente più impulsivo e imprudente della storia americana e sta dimostrando lo stesso temperamento nella sua corsa alle presidenziali del 2024». Più chiari di così, davvero, non si può essere. E forse è sempre per questo che del grande sconfitto, Joe Biden, il Presidente più irriso della storia, Woodard dice: «Con questo libro (War, ndr) incentrato su Biden, invece, ho spesso avuto l’impressione di godere di un posto in prima fila, quasi in presa diretta, per assistere agli sforzi genuini e guidati dalla buona fede, tanto del presidente quanto della sua squadra per la sicurezza nazionale, di azionare le leve del potere esecutivo in modo responsabile e finalizzato all’interesse nazionale». America, occidente, geopolitica, guerra. War. Per parlarne senza sembrare marionette da talk-show, leggere questo libro. Anzi, studiarlo.