Mauro Repetto, dagli 883 al Teatro dei Marsi: «Con Max Pezzali nessuna lite, in America andò male»

12 Aprile 2025

Parla l’ex componente del duo, che arriva questa sera ad Avezzano. Sul palco uno show musicale che ne ripercorre la carriera

AVEZZANO. Nell’estate del 1992 negli stereo italiani girava una sola cassetta a ripetizione: Hanno ucciso l’uomo ragno. Superata solo da Nord Sud Ovest Est nel 1993. Oggi le cassette non ci sono più, ma gli album restano. E suonano ancora in continuazione. Gli 883 sono un duo storico, nato nel 1988 in un liceo di Pavia, dall’amicizia e la passione per la musica di Max Pezzali e Mauro Repetto. Dopo tantissimi successi, tra cui Con Un Deca, Come Mai o Gli Anni, si sono separati. Mauro ha girato l’America cercando il sogno americano e poi ha scoperto la Francia. Ora è tornato in Italia per raccontare la sua vita con Alla ricerca dell’uomo ragno, uno spettacolo che riempie i teatri d’Italia. Stasera, alle 21, sarà al Teatro dei Marsi di Avezzano.

Gli 883 nascono da una classe del liceo Copernico di Pavia, eravate vicini di banco, giusto?

«Si, essere compagni di banco ha fondato tutto».

E come siete arrivati alla musica?

«All’inizio eravamo solo ascoltatori e grandi appassionati, poi ci siamo avvicinati al rap. Ascoltando il rap abbiamo capito che si potevano campionare gli strumenti, un metodo molto utilizzato in passato, e abbiamo iniziato a campionare le chitarre. Da lì ci siamo avvicinati al rock e poi al pop, il resto è venuto da sé».

Qual è la prima canzone ufficiale degli 883?

«Inizialmente facevamo rap in inglese. Scrivemmo una canzone intitolata Living the music, che si fece notare. Ci chiamarono ad esibirci su Italia1 nel programma 1-2-3 Jova, condotto da Jovanotti. Arrivammo lì senza un nome per il duo, quindi Cecchetto, che ci invitò al programma, ci presentò come I Pop. Per questo non mi piace definirla come la prima degli 883. Direi più Non me la menare.

Nel duo era lei quello più intraprendente, più sfacciato. Lo è ancora adesso?

«Si, assolutamente. Per me è sempre stato semplice lanciarmi a fare le cose che mi piacciono. Rispetto a Max, in quegli anni, avevo la faccia tosta e quindi più coraggio nel metterci in gioco. Lo trascinavo».

E l’obiettivo era quello di fare successo?

«No, l’obiettivo era quello di passare il tempo divertendoci. Speravamo che qualcuno ci considerasse, ma all’epoca non lo faceva nessuno. Non abbiamo mai avuto la fissazione del dover diventare “qualcuno».

E il punto di svolta qual è stato?

«Senza dubbio incontrare Cecchetto, lui è stato il nostro scopritore, quello che appunto ci ha considerato. Poi sicuramente legarci a Jovanotti e Linus ci ha trasformato da “menestrelli pavesi” a uomini un po’ più consapevoli del talento che avevamo».

Quelli erano gli anni d’oro di Radio Deejay.

«Certamente. Era una “scuderia” incredibile: Cecchetto, Linus, Jovanotti ma anche Gerry Scotti e Fiorello».

E voi vi sentivate parte di quella “scuderia”?

«Noi eravamo fan assoluti, ambivamo ad entrarci ma non era per nulla semplice. Poi grazie a Claudio...».

Siete entrati. Ci racconta come?

«Dopo l’esibizione al programma di Jovanotti su Italia 1, ogni giorno portavamo le nostre cassette a Cecchetto. Alla fine ci ha dato una possibilità. L’abbiamo colta ed è iniziato il sogno».

Inizia il sogno e incidete subito due album.

«Sì, Hanno ucciso l’uomo ragno e dopo un anno Nord Sud Ovest Est».

Due cult ancora oggi.

«Direi di sì. Pensa che al mio spettacolo vedo anche bambini che ballano e cantano».

Le canzoni come nascevano?

«Da situazioni banali, scrivevamo di episodi che succedevano al bar o che immaginavamo sarebbero accaduti la sera che doveva venire. Erano dei segmenti di storie vissute o che immaginavamo di vivere».

E le scrivevate insieme?

«Sì, ci incontravamo e scrivevamo. Ma ripeto, era per passare il tempo. Avremmo potuto giocare a Ping Pong, ma ci piaceva scrivere canzoni Il sogno poi si materializza in successo».

E cosa si prova a viverlo quando si è così giovani?

«È incredibile, ti cambia la vita. Ti faccio un esempio: a quei tempi a Milano era difficile entrare nelle discoteche, dovevi essere un tipo tosto o magari con tanti soldi. Quindi noi, ragazzini di provincia, venivamo sempre sbattuti fuori. Dopo il primo album erano le discoteche ad invitarci ogni sera. Lì ho capito che la nostra vita stava cambiando».

Nella canzone “Con un deca”, il ritornello dice: “Con un deca non si può andar via”. Infatti, arrivato il successo, e quindi un po più di “un deca”, lei ha lasciato gli 883 ed è andato in America.

«Sì. Ai tempi era in voga l’American Dream, sognavo di vivere a Miami o Los Angeles. Ad un certo punto sentivo di aver esaurito il sogno italiano e ne avevo un altro che mi chiamava, mi sembrava una figata vivere a New York e iniziare qualcosa di nuovo».

Ma scusi, non ha chiesto a Max di venire con lei? Magari il progetto degli 883 sarebbe continuato da lì.

«In realtà si. Recentemente ho detto a Max: “Guarda che sei tu che saresti dovuto venire con me, non io restare”. Però erano momenti in cui era difficile andare via da quello che avevamo. Fossero stati 3 anni prima saremmo partiti insieme ma, appunto, tre anni prima avevamo solo “un deca”».

Quindi non c’è mai stato un litigio?

«No, assolutamente. Io e Max non abbiamo mai litigato».

Ok, ma se oggi uno pensa a gli 883, pensa a Mauro e Max o solo a Max?

«Io penso a Mauro e Max, credo e spero che lo facciano anche gli altri».

In America il successo non fu quello sperato.

«No. Mi sarebbe piaciuto fare l’attore o lo sceneggiatore ma non sapevo neanche bene l’inglese. Ma non me ne pento, lo rifarei altre mille volte».

Dopo l’America, Parigi.

«Si, dove vivo tutt’ora. Lavoro per la Disney e mi diverto come un matto».

E gli spettacoli?

«Ho iniziato perché è quello che ho sempre fatto. Per me è come quando facevo l’animatore turistico. Essere su un palco è qualcosa che ho sempre avuto dentro».

Stasera “Alla ricerca dell’uomo ragno”, il suo spettacolo, sarà ad Avezzano.

«Si, sono contentissimo».

Era mai stato in Abruzzo? Ha qualche legame particolare?

«Mi ha sempre fatto piacere sapere che il padre di Robert De Niro è nato in Abruzzo. Quando penso all’Abruzzo, penso al padre di Robert De Niro e questa cosa mi fa sorridere».

Scusi Mauro, ma alla fine, chi l’ha ucciso l’uomo ragno?

«Nessuno, sta benissimo».

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