«Nelle case d’Abruzzo si mangia bene perché siete educati al gusto»
Il professor Marino Niola: «I nostri piatti nascono dalla povertà e le donne, diciamolo, dall’indigenza hanno creato l’eccellenza»
L’AQUILA. Professor Niola, cosa fa il bravo ambasciatore del gusto?
«Tenta di dare conto di un patrimonio strepitoso come quello dell’agroalimentare del nostro Paese, la cosiddetta Italia da mangiare, un vero e proprio bene culturale che dà l’idea e riflette la realtà di un intreccio unico tra cultura, arte e storia, basi della cucina italiana. Siamo il Paese dove, come dico sempre, culatello fa rima con Raffaello».
La cucina italiana è la più amata al mondo e non teme rivali?
«Storicamente la partita si è giocata con la cucina francese in vantaggio soprattutto grazie a un grande storytelling, tuttavia oggi appare una cucina del passato piuttosto che proiettata al futuro come può essere la nostra. Intanto perché quella d’oltralpe è poco sostenibile, basti pensare a ingredienti come il foie gras, molte carni e molti grassi animali, una cucina che ha fatto il suo tempo. Diversamente la cucina italiana può dirsi modernissima e realmente sostenibile. Nasce dalla povertà e fa uso di ingredienti poveri, ma proprio per questo concilia gusto e salute, benessere delle persone e salute dell’ambiente. Tant’è vero che le grandi organizzazioni internazionali guardano al nostro stile alimentare fin dagli anni in cui la Dieta mediterranea è stata considerata Patrimonio dell’umanità, e così poi l’Arte dei pizzaiuoli napoletani. Parliamo di cibi poverissimi diventati i comfort food più amati del pianeta, pasta e pizza. Già dagli anni Cinquanta gli studiosi della dieta mediterranea Ancel Keys e Margareth Honey la scoprirono proprio in Italia quando vennero a Napoli, nell’Italia del centro-sud, e la indicarono al mondo come la ricetta per risolvere i mali della civiltà industrializzata. La cucina italiana è tendenzialmente vegetariana seppur con le dovute eccezioni rappresentate dagli arrosticini di pecora, i vari ragù o gli spaghetti con le pallottine per restare in Abruzzo. Che comunque sono piatti molto sostenibili: non si eccede nelle quantità di carne e si consumano sempre insieme a ortaggi e carboidrati, è un modo di alimentarsi conviviale che dà piacere senza impoverire le risorse del Pianeta».
In questo senso i più virtuosi stanno al sud?
«Fino a venti, trent’anni fa la cucina del nord è stata tendenzialmente continentale: grassi animali, burro, carne, formaggi. Oggi le esigenze di una dieta più equilibrata e anche i riconoscimenti internazionali ricevuti stanno spostando il baricentro verso il centro-sud tant’è vero che anche al nord troviamo tanti posti dove usano ingredienti e modi di cucinare tipici del sud. Uno su tutti la grande riscossa dell’olio d’oliva, che ha soppiantato quasi del tutto il burro in cucina anche al nord...»
La cucina è paesaggio?
«Direi che al nord c’è maestria nell’organizzazione, grande capacità di fare impresa e comunicazione sul cibo. Ma i sapori stanno al centro-sud, non c’è storia. Anche se credo poco nelle stelle Michelin, basta vedere come sapori e novità stanno al centro-sud: una cucina che sperimenta ma lo fa su una matrice tradizionale molto forte, che usa ingredienti gustosi e nello stesso tempo leggeri e salutari».
Cucina povera, gustosa e anche più economica, che in tempi di crisi fa la differenza.
«Sicuramente. La cucina italiana nasce dalla povertà e dal genio di tante donne, diciamolo, che hanno saputo fare le nozze con i fichi secchi. Partendo dall’indigenza hanno creato eccellenza. In questo senso una cucina attualissima. Dai nostri piatti, quasi tutti a base di carboidrati, sono nati miti gastronomici come i famosi chitarrini with meatballs, spaghetti con le polpette di carne, un piatto abruzzese diventato negli Stati Uniti il piatto italiano per eccellenza , un modo economico di darsi piacere a tavola. Un piatto di grande resa finchè le polpette erano impastate anche col pane raffermo. Poi gli immigrati in America, diventati ricchi, hanno reso quelle polpette più grandi realizzando il sogno di ex poveri di mettere insieme pasta e carne, un simbolo di riscatto sociale».
Story telling gastronomico e nuovi narratori digitali, qual è il punto di vista di un comunicatore accademico com’è lei ?
C’è comunicazione e comunicazione, ma è una cucina particolare che io chiamo dell’aria fritta. Proprio di recente ho organizzato a Napoli una giornata di studio che ho chiamato “Aria fritta” sottotitolo: “usi, abusi e prospettive della comunicazione gastronomica”. Giocavo sul fatto che l’aria fritta oggi è l’ultima frontiera della tecnologia in cucina, ma anche la tentazione di chi parla e sparla di gastronomia senza avere né scienza né coscienza, nella maggior parte dei casi sono parole in libertà quando non copia-incolla. Diciamo pure che gli influencer si autodefiniscono tali, ma chi definisce il vero influencer è il numero degli influenzati, alcuni influenzano giusto i parenti! (ride, ndr). Puoi cliccare una bufala una volta ma poi non ci caschi più e cominci a distinguere chi sul cibo fa un discorso fondato sulla conoscenza e chi usa parole in libertà appunto, opinioni, che non è vero che valgono tutte allo stesso modo».
Cosa c’è nel futuro della comunicazione enogastronomica?
«Come tutti i mercati anche qui lentamente si comincerà a selezionare la qualità e la bolla gastronomica andrà a sgonfiarsi».
Il tema del cibo è fashion e ha surclassato anche il mondo della moda quintessenza del genio italiano.
«Il cibo è diventato proprio quello che la moda è stata negli anni Ottanta, la punta di diamante del made in Italy. Si parlava solo dello stile e degli stilisti, non più “sarti” come si diceva una volta. Gli stilisti erano diventati dei maestri, filosofi, tuttologi. Come adesso succede agli chef, i nuovi filosofi, tant’è che gli fanno dire tutto e il contrario di tutto. Non è neanche colpa loro poveretti se poi gli fanno domande sull’universo mondo come fosse un astrologo con la palla di vetro, politologo o quant’altro. È un uso distorto della celebrità di questi personaggi... A ciò si aggiunge il peso di certe trasmissioni mainstream che danno un’idea agonistica della cucina, programmi televisivi che fanno leva sui peggiori istinti dei telespettatori».
La figura dello chef celebrity però sembra stia tramontando.
«La gente comincia un po’ a stufarsi, soprattutto della onniscienza degli chef maestri di ecologia e di welfare. Quando ci sono difficoltà vere la gente capisce che non è più tempo di giocherellare e che la salute pubblica in tempi di ristrettezze è cosa troppo seria per essere trattata in quel modo lì. Anche la mania della sperimentazione a tutti i costi sta passando. La gente ha di nuovo voglia di una cucina seria, che nasce dalla tradizione, che vuol dire che quel cibo o quel piatto sono stati testati dalla storia e hanno alle spalle decenni, in qualche caso secoli di sperimentazione continua. Non è che uno chef si mette a giocare al piccolo chimico e improvvisamente rivoluziona la cucina, proprio no».
Viva la cucina della nonna?
«Assolutamente sì. Anche se non è più quella della nonna. Quei piatti li cuciniamo in modo diverso, alleggeriamo gli ingredienti, semplifichiamo anche per adattarli al tempo a disposizione. Ma siamo nel solco di quella tradizione, non stravolgiamo nulla e non ci mettiamo a condire i nostri piatti con l’avocado anziché olio e limone, per dire. Il futuro lo vedo come continuazione della tradizione con innovazioni compatibili. L’idea dell’innovazione è sempre stata presente in cucina e gli ingredienti nuovi sono sempre entrati altrimenti non avremmo avuto il pomodoro, i peperoni e altri prodotti stranieri. Ma per poter essere integrato l’ingrediente nuovo deve essere compatibile con il genius loci, cioè con la tradizione gastronomica locale. Allora sarà un matrimonio perfetto, o meglio un’adozione perfetta».
Quanto apprezza l'Abruzzo gastronomico?
«È una delle mie cucine preferite. A parte i famosi arrosticini e chitarrini che adoro, anche certi salumi come la ventricina e certe ricette meno conosciute come il pollo alla franceschiello, molto amato da Francesco II di Borbone, oppure il sugo che ho imparato a fare da una ricetta abruzzese che si fa con un misto di carne di agnello e bovino tagliati al coltello a pezzi piccolissimi, buttati nell’aglio olio e peperoncino, poco pomodoro e non cotto troppo a lungo, e poi rosmarino. È un piatto che mi ispira tanto, dove tutto si gioca sull’eccellenza del rosmarino. Quello abruzzese di montagna è strepitoso, mentre se ne uso uno del supermercato, insapore, il piatto perde del cinquanta per cento. E poi non dimentico le Virtù teramane. Trovo che in Abruzzo la qualità media della ristorazione sia eccellente, e senza spendere cifre altissime. Intanto perché si mangia bene nelle case, tutti sanno mangiare bene per tradizione famigliare, non c’è bisogno di tutorial. Un’altra cosa che distingue la cucina del centro-sud, e per me di fatto l’Abruzzo è sud non a caso faceva parte del Regno di Napoli.
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