RICE APRE PESCARA JAZZ: «OGNI MIO CONCERTO HA UNA SUA STORIA»
Il cantautore irlandese è in tour con la sua barca a vela «Amo non sapere dove sto andando e seguire il momento»
PESCARA. Risponde dalla prua della barca a vela che lo avvicina al lido di Ostia. Il porto è a pochi chilometri dal teatro romano, sede del Festival di Ostia Antica che lo vede tra i protagonisti. L’acqua che si infrange contro lo scafo di legno – mezzo prediletto per il tour estivo – ha un ritmo che è piacevole ascoltare. Damien Rice ne è consapevole. «Essere disteso qui, cullato dolcemente dalle onde, è qualcosa che sceglierei anche come passatempo. Mi sembra di sognare, eppure sono in tour e sto lavorando», spiega il cantautore irlandese giramondo tra i più amati e seguiti della sua generazione (Celbridge, 7 dicembre 1973) . «Non sceglierei mai volontariamente di salire su un autobus, è solo una necessità funzionale a raggiungere tutte le tappe, quando non posso farlo in barca a vela». Il punto d’approdo successivo è nel capoluogo adriatico per l’apertura, domani 9 luglio alle 21, al Teatro d’Annunzio del 51° Pescara Jazz: quello di Rice è il primo degli 11 concerti in programma nel festival internazionale. Il cantautore irlandese non ha scalette né piani prestabiliti sul palco e questo costringe i tecnici del suono e delle luci a fare salti straordinari per assecondare le sue scelte estemporanee. «Amo non sapere dove sto andando», spiega, «e mi piace sentire il momento e lasciare arrivare alla mente le canzoni secondo un flusso che provo a seguire. Neanche la struttura dei singoli pezzi resta invariata. Amo prolungarli o improvvisare alcuni passaggi, specie se suono con la loop station. In questo tour, tuttavia, la collaborazione con la cantante e violoncellista brasiliana Francesca Barreto mi porta a tenermi più sulle versioni originali. Adoro comunque fare musica con persone meravigliose.
Le sue canzoni e il suo storytelling incarnano l’inclinazione a raccontare storie sincere e genuine di vita vissuta, nonché la capacita di elevare il personale e all'universale. Con la natura a fare da sfondo. Come si combina tutto ciò?
Penso che tutte le creature su questa Terra siano incredibili, che si tratti di un uccello che vola nel cielo o di una balena nell’oceano. I nostri corpi sono organismi straordinariamente impressionanti che svolgono molte attività complesse in modo naturale. Spesso me ne dimentico, poi mi ricordo che siamo tutti dotati di polmoni che ci permettono di respirare e che vanno avanti da soli senza che ci si debba pensare troppo. Anche le mie canzoni tendono a nascere in modo spontaneo. Certo, posso decidere spontaneamente di prendere un respiro profondo, come posso decidere di scrivere una canzone in autonomia, ma quando faccio così le canzoni generalmente mancano di qualcosa che non riesco a spiegare. I brani che preferisco arrivano da soli e li accompagno in un movimento di cui non sono veramente responsabile.
Come si gestisce la pressione di esibirsi davanti alle grandi folle dei festival, in rapporto a spettacoli più intimi e ridotti?
Non è la dimensione dello spettacolo a renderlo più facile o più difficile in termini di pressioni da gestire. Sono molto più importanti il design dell’area concerto, la posizione e la visuale del pubblico. Cerco di mettermi nell’ottica di uno spettatore. Mi piace vedere bene, sentire bene e sentire di essere in qualche modo connesso all’artista e adoro quando posso percepire che nell’artista c’è dell’autentico. Quindi, quando mi trovo a fare un concerto, che sia grande o piccolo, mi ricordo che darò il massimo se mi sento “autentico”. L’autenticità può vivere o morire in qualsiasi ambiente esterno. Una città, un autobus pubblico, una stanza, una cima di montagna, una foresta o qualsiasi cosa. Solo così, idealmente, salgo sul palco rilassato come se stessi suonando nella mia camera da letto. Poi chiudo gli occhi e cerco di prendere contatto con me stesso e dimenticare la capienza della sala o del campo. L’intimità è una cosa interna per me.
Ci sono state esperienze che hanno avuto un impatto significativo sul suo percorso artistico?
C’è una separazione naturale nella disposizione abituale di un palco e un pubblico. La rottura del confine tra l’artista e il pubblico è una sfida che mi affascina da anni. Per me quello che conta è sentirmi vicino il più possibile al pubblico, vivendo il momento del concerto insieme, dimenticandoci di dove siamo lasciando fare alla musica. Questo è uno dei grandi doni della musica: il suo potere di trasformare la nostra condizione mentale e fisica.
In My favorite faded fantasy, l’approccio musicale sembra subire un'evoluzione. Qual è il nucleo del processo creativo?
Penso di essere un po' allergico alle registrazioni, a meno che l’impulso non sia così forte che non posso fare a meno di farlo. È simile ad andare in bagno. Se deve venireè facile. Se non viene e io ci provo a tutti i costi, sento di rovinare qualcosa.
Le sue canzoni e il suo storytelling incarnano l’inclinazione a raccontare storie sincere e genuine di vita vissuta, nonché la capacita di elevare il personale e all'universale. Con la natura a fare da sfondo. Come si combina tutto ciò?
Penso che tutte le creature su questa Terra siano incredibili, che si tratti di un uccello che vola nel cielo o di una balena nell’oceano. I nostri corpi sono organismi straordinariamente impressionanti che svolgono molte attività complesse in modo naturale. Spesso me ne dimentico, poi mi ricordo che siamo tutti dotati di polmoni che ci permettono di respirare e che vanno avanti da soli senza che ci si debba pensare troppo. Anche le mie canzoni tendono a nascere in modo spontaneo. Certo, posso decidere spontaneamente di prendere un respiro profondo, come posso decidere di scrivere una canzone in autonomia, ma quando faccio così le canzoni generalmente mancano di qualcosa che non riesco a spiegare. I brani che preferisco arrivano da soli e li accompagno in un movimento di cui non sono veramente responsabile.
Come si gestisce la pressione di esibirsi davanti alle grandi folle dei festival, in rapporto a spettacoli più intimi e ridotti?
Non è la dimensione dello spettacolo a renderlo più facile o più difficile in termini di pressioni da gestire. Sono molto più importanti il design dell’area concerto, la posizione e la visuale del pubblico. Cerco di mettermi nell’ottica di uno spettatore. Mi piace vedere bene, sentire bene e sentire di essere in qualche modo connesso all’artista e adoro quando posso percepire che nell’artista c’è dell’autentico. Quindi, quando mi trovo a fare un concerto, che sia grande o piccolo, mi ricordo che darò il massimo se mi sento “autentico”. L’autenticità può vivere o morire in qualsiasi ambiente esterno. Una città, un autobus pubblico, una stanza, una cima di montagna, una foresta o qualsiasi cosa. Solo così, idealmente, salgo sul palco rilassato come se stessi suonando nella mia camera da letto. Poi chiudo gli occhi e cerco di prendere contatto con me stesso e dimenticare la capienza della sala o del campo. L’intimità è una cosa interna per me.
Ci sono state esperienze che hanno avuto un impatto significativo sul suo percorso artistico?
C’è una separazione naturale nella disposizione abituale di un palco e un pubblico. La rottura del confine tra l’artista e il pubblico è una sfida che mi affascina da anni. Per me quello che conta è sentirmi vicino il più possibile al pubblico, vivendo il momento del concerto insieme, dimenticandoci di dove siamo lasciando fare alla musica. Questo è uno dei grandi doni della musica: il suo potere di trasformare la nostra condizione mentale e fisica.
In My favorite faded fantasy, l’approccio musicale sembra subire un'evoluzione. Qual è il nucleo del processo creativo?
Penso di essere un po' allergico alle registrazioni, a meno che l’impulso non sia così forte che non posso fare a meno di farlo. È simile ad andare in bagno. Se deve venireè facile. Se non viene e io ci provo a tutti i costi, sento di rovinare qualcosa.