Sergio Rubini legge Calvino: vogliamo riprodurre l’atmosfera delle Città invisibili
L’attore, sceneggiatore e regista pugliese stasera alle 21 al Massimo di Pescara Porterà in scena uno dei libri più amati della produzione letteraria dello scrittore
Hanno affascinato generazioni di lettori, “Le città invisibili” raccontate da Italo Calvino. L’attore, sceneggiatore e regista pugliese Sergio Rubini porta in scena, in occasione del FLA, uno dei libri più amati della produzione letteraria dello scrittore. Rubini salirà sul palco del Teatro Massimo di Pescara questa sera alle 21. Accompagnato dal pianista Michele Fazio, farà immergere lo spettatore in suggestive atmosfere, proponendo uno spettacolo elegante in cui narrazione, musica e immagini si intrecciano.
Un omaggio a Italo Calvino. Come si articola lo spettacolo?
Saremo in scena io, Calvino -le sue parole, il suo libro-, e un pianista, Michele Fazio, che lavora anche con una tastiera elettronica. È uno spettacolo che amiamo molto, abbastanza sensoriale, un po’ come lo stesso libro di Calvino. “Le città invisibili” sembra essere un libro che nasce dal flusso della scrittura. Abbiamo cercato di riprodurre la stessa atmosfera del libro attraverso la lettura, i suoni e la musica.
Calvino è ancora di straordinaria attualità. Qual è, secondo lei, la forza di questo testo?
La potenza del libro potremmo riassumerla nelle battute finali, quando ci dice che tutto è inferno e la capacità dell’uomo sta nell’individuare ciò che non è inferno, dargli spazio e farlo durare. Penso che sia un messaggio disperato, ma carico di speranza. Messaggio disperato è scoprire che non siamo in un luogo beato, pacifico. Alle brutture del mondo ci si può arrendere. Calvino, invece, ci dice che la forza dell’essere umano, il senso della vita, sta nell’individuare tutto ciò che non è brutto, dargli spazio e farlo durare…questa è la vita. È una battaglia, ma anche una ricerca continua della bellezza, dell’amore.
Qual è oggi la funzione della letteratura?
Ha una funzione visionaria. Gli artisti, i poeti, gli scrittori sono degli esploratori, che arrivano prima al senso delle cose, a decifrare la realtà. Nella società in cui viviamo spesso sono diventati abbastanza altro e perdono la loro sostanza più profonda, però continuo a crederci. Ne “Le rane” di Aristofane si racconta che la società ateniese è allo sfacelo. Per risollevarne le sorti si immagina di scendere giù nell’Ade a riprendere i tre tragediografi. Oggi è abbastanza impensabile credere che recuperando Shakespeare o Pirandello ci possa essere un Pil migliore, però io penso che in quel messaggio che ereditiamo dal mondo classico ci sia una grande veggenza. Non è utopistico il fatto che i poeti, gli artisti, gli intellettuali possano salvare il mondo; invece i Pil, i numeri, il mercato possono mortificarlo, non necessariamente ci fanno vivere meglio e ci rendono felici. Mentre ciò che ci arriva dalla poesia, dall’arte può regalarci qualcosa di più profondo del benessere di un giorno.
Lei ha esordito a teatro. Cosa rappresenta per lei questa dimensione?
Del teatro amo che sia uno spazio vitale di ricerca, mi piace per l'inatteso. Non amo, invece, la vita itinerante. C’è un verbo che si utilizza in teatro, quando una cosa funziona si dice: “Fissala!”. Questa è una espressione che non preferisco, perché trovo che quando una cosa viene fissata in qualche modo la si mortifichi, la si devitalizzi; nel cinema quando il regista non batte più il ciak c’è il montaggio, si continua a modificare, c’è un continuo divenire. Mi piace ricercare, ritengo che nelle sgrammaticature ci sia l’autenticità della vita. Amo portare il teatro al cinema: provare, studiare. Non amo quando diventa quello che guerreggiava Brecht, il “teatro gastronomico”, in cui lo spettatore arriva in sala, si mette il tovagliolo e mangia quello che gli si propina. Penso che lo spettatore oggi sia più preparato e possa divertirsi a vedere anche ciò che c’è dietro il testo.
Nel 2021 ha diretto il film “I fratelli De Filippo”. Cosa rappresenta per lei Eduardo?
Ho amato Eduardo fin da bambino, grazie a mio padre. Negli anni Ottanta, un collega attore mi ha fatto conoscere la storia dei De Filippo. Mi ha raccontato che ogni giorno un cameriere veniva fuori con un vassoio da via Vittoria Colonna, a Napoli, e portava da mangiare alla famiglia De Filippo, che alloggiava a poche centinaia di metri dalla casa di Scarpetta. La storia di questa famiglia di serie B costretta a ricavarsi uno spazio nel mondo, mi ha molto colpito. Ho conosciuto tutti i dolori dei De Filippo, ma anche la loro capacità di ribaltare il proprio destino. Grazie al loro talento, alla loro tenacia, sono riusciti ad affermare il proprio cognome, che era l'elemento di vergogna. Ho pensato che questa storia andasse raccontata, perché dava tanta speranza.
Cosa ama leggere?
Da ragazzo ho avuto una formazione classica, ho letto i russi, i francesi, gli inglesi. Poi mi sono avvicinato alla letteratura contemporanea, con un certo sospetto, per poi innamorarmi degli americani e della letteratura italiana. Sono stato un grande lettore.
Qual è il suo rapporto con l’Abruzzo?
Ci sono stato più volte. In Abruzzo ho girato “Il viaggio della sposa”, che raccontava il percorso della transumanza. Amo i suoi monti, il mare. È una terra molto affascinante, mi emoziona.