Celestino V, il Papa che ridiventò frate
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13 dicembre 1294 le storiche dimissioni dal Soglio di Pietro
Il secolo XIII racchiude eventi e personaggi straordinari nella storia della cristianità. Tra gli avvenimenti ben tre concili Ecumenici: Lateranense IV (1215), Lionense I (1245), Lionense II (1274). Tra i personaggi, San Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman, Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Antonio da Padova, Tommaso d’Aquino. Manfredi è sconfitto e ucciso a Benevento (1266). Corradino sconfitto a Tagliacozzo finisce sul patibolo a Napoli (1268). Nuove aspirazioni di libertà, fermenti ereticali, contrapposizione tra Ecclesia carnalis ed Ecclesia spiritualis, corruzioni curiali, divisione del Collegio cardinalizio che da oltre due anni, riunito in Conclave a Perugia, non riesce ad eleggere il successore del Papa Nicolò IV, deceduto nel 1292. Accadrà che il 5 luglio 1294 viene eletto Papa frate Pietro, l’Eremita del Morrone. Evento sensazionale. La cristianità ebbe l’impressione che si fosse avverata la profezia di Gioacchino da Fiore: l'avvento di un "Pastor Angelicus" per l’era dello Spirito Santo. Segni convincenti furono certamente le stimmate di Francesco d’Assisi e il fatto che sul trono di Pietro sedesse, finalmente, un Pontefice Santo. Fu dura l’accettazione per Fra' Pietro, eppure non rifiutò, ma accettò e volle essere incoronato a L’Aquila col nome di Celestino V, il 29 agosto 1294, davanti la Basilica di Santa Maria di Collemaggio, da lui fatta costruire. Ecco alcuni passaggi della sua accettazione tratti dall’originale del discorso di presentazione durante l’incoronazione: “…i Fratelli (Cardinali) pur così divisi, unanimemente elessero all’apice del sommo pontificato Noi allora Frate Pietro del Morrone dell’Ordine di San Benedetto, facendoci pervenire per mezzo di speciali messi il Decreto di siffatta elezione. E benché una mole di così grande peso fosse insopportabile alle nostre spalle, (poiché posti in umile stato e educati nella solitudine dell’eremo da molto tempo, e deposta ogni cura di cose terrene, avevamo scelto di essere solitari e sconosciuti nella Casa del Signore) considerando tuttavia che una troppo lunga tardanza nella sostituzione del Pastore portava pericoloso nocumento e alla chiesa e al Gregge del Signore, per non sembrare che resistessimo alla divina chiamata, finalmente, confidando in Colui che trasforma in forte il debole, che dona l’eloquenza ai balbuzienti, che viene benignamente in soccorso di quelli che lo temono ed invocano il suo nome, che guida meravigliosamente per le sue vie i passi degli uomini, né lascia mai privi di consiglio quelli che sperano in Lui e dal quale fedelmente supponiamo e umilmente crediamo che derivi questa nostra Chiamata, ci assumiamo il peso impostoci”. Ma il 13 dicembre 1294, dopo 107 giorni di pontificato Celestino V si dimette dal soglio supremo e rinuncia al Papato. Si accesero dispute infuocate su Celestino e sul suo pontificato, sul significato e il valore di quella rinuncia che ad alcuni appariva follia ad altri massima fedeltà agli insegnamenti di Cristo e altissima umiltà. Ci fu grande sconcerto in campo politico, teologico e giuridico. L’erronea interpretazione del verso dantesco: l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto, contribuì non poco a gettare ombra sulla figura del grande santo anacoreta. Francesco Petrarca, però, descrive e solennizza così le dimissioni di Celestino V: Deposto il massimo pontificato, come un peso che gli dava morte, con tale disio se ne tornò all’antica solitudine, come se fosse stato slegato da ostili ceppi. Il qual fatto del solitario e Santo Padre attribuisca pure chi voglia a viltà d’animo, io lo giudico che fu gesto di animo elevatissimo, più che libero e non soggiogato da passioni e veramente celeste, e giudico che non poté farsi ciò se non da un uomo che stimasse le cose umane per quelle che valgono. Non è da cuore debole e infingardo, come giudicano gli amatori di questo secolo, disprezzare le ricchezze, avere a nausea gli onori che tramontano. Lasciaron gli altri le navi e le reti, le altre piccole robe, altri il telonio, altri anche regni e la speranza dei regni per farsi santi e amici di Dio. Ma il papato, di cui non vi è cosa più alta, tanto desiderato e magnificato, chi mai in qualunque tempo, soprattutto da quando si cominciò a stimare tanto, lo disprezzò con animo più eccelso e sorprendente di questo Celestino? Solo anelante del suo primiero nome e luogo e della povertà, Lui che nel guardare il cielo dimentica la terra”. Era passato tra usurai, simoniaci e barattieri di ogni tipo ed era rimasto se stesso. A Napoli, dove Celestino aveva trasferito la sede pontificia, Re Carlo II D’Angiò fremeva per la situazione che vedeva sfuggirgli di mano. Esercitò delle pressioni su Celestino per farlo desistere dal suo proposito di rinuncia. Organizzò un corteo di popolo, notabili e clero che andarono a gridare e a scongiurare sotto la finestra del Papa, ma tutto fu inutile. Il Papa era ormai inflessibile. Aveva fatto preparare per tempo la sala del Concistoro. La mattina del 13 dicembre i Cardinali vi prendono posto. Ecco entra il Papa, sguardo sereno ed altero, si avvia verso il trono tenendo stretta una pergamena arrotolata. Guarda tutt’intorno e dice: "Molti di voi si stupiranno della mia decisione ormai irrevocabile di rinunciare al pontificato…" Sale sul trono, srotola la pergamena e legge: "Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe (forse alzando gli occhi, di questa plebe), al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore, la Chiesa Universale." Il Cardinale Matteo Rosso Orsini chiede al Pontefice di emanare una speciale costituzione nella quale fosse specificato che il Papa, per giusta causa, aveva facoltà a rinunciare al suo supremo grado. Era un dettaglio burocratico, ma necessario per evitare che qualcuno potesse, un giorno, invalidare l’elezione del successore. Celestino non ebbe alcuna esitazione, dettò lì per lì, allo stesso Orsini, il testo della Costituzione e subito lo sottoscrisse. Poi si alzò dal trono, raggiunse il centro della sala e qui, tra lo stupore generale, seduto a terra, cominciò a spogliarsi delle vesti papali. Tolse dal capo la tiara e la depose sul pavimento, si tolse l’anello, si spogliò del piviale rosso, della stola e della cotta. Si alzò in piedi e rivestì il suo vecchio, logoro saio morronese.
Austero, sereno e a fronte alta, Celestino attraversò la sala, tra gli ori e le porpore dei Cardinali. E uscì. Così come aveva espressamente manifestato, Celestino era intenzionato a tornare alla sua solitudine, al suo eremo, al Morrone, in pace. Invece si aprì il capitolo più terribile della sua vita.
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