Ecco la cronista inglese che raccontò l’inferno del terremoto della Marsica
Lo studioso marsicano Ciaglia riporta alla luce il reportage di Beatrice Baskerville .Le testimonianze dopo un viaggio tra i paesi devastati dalla catastrofe
Quella di Beatrice Baskerville è una voce nuova nell’ambito delle testimonianze sul terremoto che colpì la Marsica nel 1915, di cui ricorre domani il 110° anniversario. Corrispondente di diverse testate giornalistiche a Roma nella prima metà del ’900 – su tutte World e Daily Telegraph – la giornalista inglese fu nota nel corso del Ventennio fascista per la sua tenace avversità al regime, che le costò un’aspra sorveglianza da parte della polizia politica.
La cronaca relativa al dramma marsicano, pressoché sconosciuta, è l’esito di un viaggio di quattro giorni trascorsi nell’area per raccontare gli scenari post-disastro, dando voce ai sopravvissuti e sostanziando con immagini vivide quel che restava, distrutto o vacillante, dei paesi sfiancati dall’evento sismico. “The earth opened”: così fu titolato il breve scritto reso pubblico solo il 6 marzo 1915 nel numero 3037 del settimanale Harper’s Weekly. A Journal of Civilization, giornale newyorkese con sede all’angolo tra la quarta e la ventesima strada, operante fin dalla metà dell’Ottocento con attenzione al quadro interno ed estero, impreziosito da voci di celebri scrittori europei e americani, nonché da abili vignettisti. La cronista inglese incominciò il suo repertorio di testimonianze da Collarmele, dove un giovane sintetizzò la forza devastatrice del terremoto con una dichiarazione succinta e brutale: «La terra si è aperta e li ha inghiottiti, signorina». Ne fu colpita al punto tale da elevarla a titolo del reportage, quel ragazzo aveva perso tutti i suoi cari la notte del 13 gennaio. Baskerville invitò di seguito il lettore a figurarsi la naturalezza degli eventi qualche attimo prima del sisma, certamente «alle 7:55 l’impiegato del telegrafo aveva appena finito il suo rapporto e si era messo il cappello per andare a casa a dormire, la bella figlia di un medico locale aveva appena telefonato all’amica. I ritardatari si concedevano un ultimo sonnellino, un falegname sistemava la colazione sotto il suo banco, con l’intenzione di lavorare un po’ prima di mangiarla. Migliaia di persone iniziavano quel mercoledì di sole come tanti altri mercoledì passati». La sequenza di scene di semplice quotidianità raccoglie frammenti di vita di paese in paese, attimi tradotti da Beatrice Baskerville nel testo a partire dai racconti dei sopravvissuti: «A Gioia dei Marsi, il più remoto e fertile dei comuni marsicani, un autista era intento a pulire le automobili del Marchese; a Pescina, poche miglia di distanza e più prossima stazione ferroviaria, solo caprai e pastori si trovavano già all’aperto; a Celano, la maggior parte delle donne era ammassata nell’antica chiesa; ad Avezzano, ancor più a sud nell’altopiano, il capostazione stava infilandosi gli stivali ai piedi». Dopodiché, la rovina. Baskerville paragonò il disastro al «fragore di mille venti», un «rombo come di tuono» che del tuono è più inquietante in quanto non susseguente al lampo, ma al moto delle viscere della terra. E dall’urto «la caduta di cento città e villaggi».
Chi ebbe la fortuna di trovarsi nelle campagne, proseguì la giornalista, poté assistere in prima persona al primordiale ritratto della desolazione «attraverso la polvere accecante e il fumo delle macerie in fiamme». Toccò poi un punto nodale nella descrizione della rovina, vale a dire l’estrema remoteness dei villaggi più danneggiati, una lontananza che è anche isolamento dalle immediate possibilità assistenziali. «Nemmeno un dottore, un ufficiale o un soldato» erano rimasti per poter prestare i soccorsi, così i sopravvissuti scavarono a mani nude per giorni lottando contro il tempo affinché i cari non li abbandonassero sotto un tappeto di pietre. «Furono tagliati fuori dal mondo», continuò, evocando quel “Mondo a parte” che il recente film di Riccardo Milani non mette al centro per una insita alterità rispetto alla città, quanto per la cronica battaglia condotta dalla montagna per colmare i divari territoriali e garantire i servizi essenziali, imprescindibili sino all’ultima frazione in una terra che trema forte per natura. E ancora, Baskerville ricuce con lucidità una serie di emblematiche esperienze della risposta al disastro nelle diverse località marsicane. Inizia dall’arrivo del re ad Avezzano.
Vittorio Emanuele III si districava tra le rovine. Le strade si percorrevano come si affronta una pietraia d’alta montagna priva di cavalcature. La cronista impresse nello scritto l’appello vigoroso di una donna in lacrime, che facendosi largo tra la folla giunse al cospetto del sovrano e gridò: «Tu sei il re; a te obbediranno e scaveranno, per tutti loro».
La specificità del ricordo è tale da indurre a credere – a questo punto – che la giornalista si trovasse al seguito del monarca, accreditatasi in qualche modo nella scia di personalità giunte da Roma. Il grido emblematico della donna racconta il dramma del ritardo nei soccorsi, che costrinse gli scampati a inconcepibili sforzi. Se fu il fremito della comunità sofferente a segnare la visita avezzanese, tutt’altro fu il piglio dei sopravvissuti che Baskerville incontrò a Celano poco dopo. «Lì regnava un silenzio di tomba».
Nello scritto si racconta che, a primo impatto, la vista del paese non lasciava presagire danni considerevoli: solo addentrandosi dalla piazza principale nei vicoli del centro fortificato poteva notarsi che le mura delle case, ancora in piedi, celavano la drammatica caduta degli interni. Nonostante il freddo, i superstiti si ritrovavano nei pressi della fontana e si inoltravano nelle più strette vie del paese alla ricerca dei dispersi. Dagli altri centri emergono surreali vicende di sopravvivenza sotto le macerie, come quella di una donna di Pescina scaraventata – con tutta la sua abitazione – in un giardino adiacente, trovandosi miracolosamente contenuta in una nicchia tra i detriti e i resti di un melo. Fu proprio la presenza dei frutti a tenerla in vita, prima che venisse estratta dopo cinque interminabili giorni. A Cerchio, successivamente, Baskerville intercettò la testimonianza di un cittadino stremato che «raccontò la sua storia con quella facilità con cui gli italiani parlano agli estranei dei loro affari più intimi». Si trovava a Roma al momento della scossa, mentre sua moglie era stata sepolta dal disastro. Tentò di raggiungere il paese nel più breve tempo possibile, ma «non hanno predisposto nessun treno speciale per le terre del terremoto». Così provò a noleggiare un’automobile, ma le esorbitanti tariffe lo costrinsero ad attendere il treno del giorno successivo. Solitamente il viaggio richiedeva quattro ore e trenta minuti, ma le criticità della tratta rallentarono i tempi di percorrenza e l’uomo scorse le rovine di Cerchio solo al crepuscolo. Un pugno di soldati era impegnato in un’operazione di soccorso che avrebbe richiesto centinaia di collaboratori. Avvicinatosi ai resti della sua abitazione riuscì a entrare in contatto con la moglie. Una voce flebile affiorò da qualche parte in profondità e l’uomo scavò per 36 ore a mani nude, dapprima da solo e poi in compagnia di un vicino. I due riuscirono ad avvicinarsi abbastanza per poterle passare qualcosa da bere, ma la donna non resistette quanto necessario ad essere estratta in vita. Se il marito fosse partito il giorno prima, le cose sarebbero andate diversamente. La cronista si soffermò sulla lentezza dei soccorsi denunciando i ritardi del Ministero dell’Interno, che suscitarono anche la rabbia del re: «Si rifiutarono di credere che cinquantaquattro città fossero state distrutte», addirittura «un ordine per un reggimento di genieri che doveva partire per Avezzano la sera del 13 fu annullato all’ultimo momento». Confrontandosi con un reggimento giunto a piedi da Ancona a Gioia dei Marsi, la giornalista appurò dai soldati che non solo operarono privi di forze – passati quattro giorni, avevano in corpo le razioni sufficienti per 24 ore –, ma erano sprovvisti di attrezzi utili alla costruzione delle baracche.
Un “subalterno” raccontò: «Non avevamo martelli e abbiamo costruito queste due baracche per i feriti con le travi che abbiamo estratto dalle macerie, piantando i chiodi con le pietre che abbiamo raccolto». Fu poi la volta del centro di San Pelino, dove la donna acclarò che la comunità restò ai margini dei soccorsi per giorni, le notizie sulla devastazione giunsero a Roma solo il 17 gennaio. «Ma loro non dimenticano mai di riscuotere le tasse», lamentavano alcuni dei superstiti. Non mancarono persino certi individui che apparvero tra gli sfollati in cerca delle ragazze rimaste sole. Per quanto poterono, i militari li rispedirono con forza lontano da quelle contrade in rovina. Giunta l’ora di rincamminarsi verso la capitale, per Beatrice Baskerville arrivò il momento di tirare le somme di questo intenso viaggio attraverso i villaggi diroccati della Marsica. Dalle sue riflessioni emerge un deciso ottimismo che fa perno sugli animi dei sopravvissuti, a dispetto della terribile sventura: «Molti atti di eroismo e di gentilezza hanno controbilanciato il terrore della morte e del dolore: la pazienza delle vittime, una volta consumati i loro sfoghi contro il governo; la loro disponibilità ad accontentarsi di mezza pagnotta perché la gente del villaggio vicino aveva più fame di loro; le privazioni sopportate in silenzio, la gratitudine per l’aiuto che le persone davano loro, la tolleranza reciproca e i molti atti di abnegazione. Qui, come altrove, erano i poveri a mostrare la loro intensa solidarietà con la miseria e l’angoscia. Poi ci sono i soldati laboriosi che hanno dato le loro razioni ai sopravvissuti e hanno prestato loro i cappotti; e la folla alla stazione di Roma, che ha portato le proprie cene per i rifugiati». Tali azioni, secondo Baskerville, incarnavano la spia di un nuovo possibile inizio per questa porzione di entroterra abruzzese, parentesi di potente solidarietà che sovrastarono «i casi solitari di furto tra le rovine o gli intrighi di coloro che esercitano un commercio vergognoso». A qualche superstite la giornalista inglese poté sollevare la questione più complessa: «Queste città risorgeranno?». Gli avezzanesi non batterono ciglio, «la loro città deve risorgere e lo farà», mentre nei piccoli centri la maggiore povertà indusse i rimasti a chiedersi se domani avrebbero trovato veramente il «coraggio di ricominciare».
La storia dimostrò che si poté, ma solo rimboccandosi tenacemente le maniche, giacché al prezzo della devastazione si aggiunse un ritorno tardivo ad accettabili condizioni abitative. Nel 1947 non tuonarono casualmente, dai banchi della Costituente, le parole di Ignazio Silone al cospetto dei ministri del tesoro e dei lavori pubblici, interrogati per sapere una volta per tutte «come e quando intendano che siano soccorsi i numerosi cittadini costretti da circa 32 anni ad abitare in penosa promiscuità e in baracche pericolanti, la cui durata al momento della costruzione, era stata prevista per pochi semestri».
Facendo ritorno alla penna di Baskerville, la riscoperta del suo reportage consente di aggiungere un tassello ulteriore alla conoscenza del terremoto del 1915, recuperando lo sguardo di una giornalista che raccontò della rovina calandosi per giorni tra le pieghe e le piaghe della povertà e della disperazione. Vengono alla mente le annotazioni che Jack London riservò alle prime pagine di Il popolo dell’abisso (1902), reportage che svelò al mondo intero il dramma della classe popolare nell’East End londinese, piegata e svilita dalle velocità dello sviluppo industriale. Per lo scrittore americano il viaggio diventa lo strumento indispensabile per intendere la povertà: sul campo, tra la gente, rifuggendo – come anche Beatrice Baskerville nei confronti dell’iniziale scetticismo dei ministeri – il giudizio di chi «non aveva visto o non si era trattenuto abbastanza per poter comprendere davvero».
(* Assegnista di ricerca
Sapienza Università
di Roma)