La valanga del febbraio ’83 Quel dolore lungo 40 anni 

Sul Gran Sasso persero la vita tre giovani aquilani volontari del Soccorso alpino La vedova di Vizioli: «Fummo tutti travolti, ora guardo la neve con malinconia»

L’AQUILA. Le finestre della casa sulla Mausonia si aprono sul Gran Sasso. L’orizzonte perde progressivamente il rosso e il tramonto lascia spazio al chiaro di luna e al suo riverbero sulla neve. Quella neve che anche dopo quarant’anni Anna Maria Vizioli guarda ancora «con malinconia e apprensione», talvolta sconforto, pensando alla valanga che il 6 febbraio 1983 si portò via suo marito Piermichele Vizioli, 33 anni, insieme ad altri due alpinisti volontari del Soccorso alpino, Stefano Micarelli, 20 anni, e Riccardo Nardis, 32. Talvolta, per la donna, all’epoca dei fatti 28enne, la linea della neve è come un graffio sull’anima: «Quella valanga», commenta, «colpì sei persone, ne uccise tre e travolse tutti noi, con le nostre famiglie da ricostruire». Tre si salvarono, dunque, pur portando per sempre le ferite di quel giorno maledetto. Un giorno rimasto nella memoria collettiva, anche dopo 40 anni, e non solo per i partecipati funerali a San Bernardino.
L’ESERCITAZIONE
«Che rabbia! Oggi sto di servizio in caserma. Proprio oggi, domenica, 6 febbraio 1983. Tutti i miei amici del Soccorso alpino sono in giro per i monti, però lo sono senza di me». Il racconto è di Paolo De Angelis, medico appassionato di montagna, a lungo a servizio del Soccorso alpino. Quel giorno di 40 anni fa si salvò. «Appena svegliato», ricorda, «provai un po’ di invidia non perché io fossi in caserma, ma perché non ero sui monti. C’era in atto una esercitazione del soccorso a monte Jenca, nella zona della Vaccareccia, sotto una neve bagnata e pesante, che cadeva dalla notte a tratti fitta, a tratti mista a pioggia. C’erano tutti i miei amici... tutti». In quota, fianco a fianco, si sedimentavano amicizie importanti. «Erano tanti anni», ricorda, «che facevo parte del Soccorso, ma alcune persone mi erano particolarmente care. Ero un autodidatta, avevo imparato sulla mia pelle, sin dal 1971. Ma il tempo passa e nel 1983 ormai eravamo vecchi. Il giovincello era Stefano, 20 anni, già bravissimo in roccia, superbo sugli sci, eppure lui aveva scelto me come modello e mi seguiva come un’ombra sia in montagna che durante i soccorsi. Non riuscivo a liberarmi di lui neppure sotto i portici. In verità neanche volevo. Sabato 5 febbraio, lo incontrai verso San Bernardino, ci fermammo davanti la vetrina delle scarpe di Mazzitti e parlammo anche dell’esercitazione del giorno dopo».
QUELLA MATTINA
Partenza all’alba. I gruppi erano due, uno in salita e l’altro ad attendere all’arrivo. Una salita alla portata di tutti, anche se le condizioni atmosferiche destavano qualche preoccupazione, la giornata era cupa e il cielo plumbeo. È una delle persone presenti in quel gruppo a raccontare: «Dovevamo raggiungere le creste e poi svalicare, ma giunti in vetta il tempo era terribile e la visibilità ridotta allo zero, valutando tutto, si decise di proseguire». Nel momento della discesa, il gruppo ha però incontra della neve fresca, gelida e leggerissima, che nessuno poteva aspettarsi, dopo mesi di mancanza di neve, ed è lì, a ridosso del canalone, che si è compiuta la tragedia. In sei vennero travolti. «Immagino quella valanga», valuta Annamaria Vizioli, «come un imbuto che decide chi tirare dentro e chi lasciare fuori. Una strana roulette che ha lasciato sei persone in balìa di un destino più grande». Alle ricerche partecipò lo stesso De Angelis. «A tanti anni di distanza», scrive sul suo blog, «ancora, la sera, quando guardo il Gran Sasso innevato, la mia mente corre a quell’episodio. Qualche tempo fa, in inverno, una domenica per me particolarmente triste, ho percorso il versante sud di monte Jenca e sono sceso a nord, lì dove era avvenuta la tragedia. C’era molta neve ma i bassi alberi ed il luogo non ispiravano nulla di pauroso, il pendio non incuteva timore di valanghe. Per sfida sono sceso nel canalone. Dal 6 febbraio 1983 non ero tornato più in questi luoghi. Mi è venuto da pensare perché ora la valanga non si muoveva. Tra di me le lanciavo la sfida. Chissà, se ci fossi stato io, forse Stefano non sarebbe morto. Lui mi avrebbe certamente seguito come sempre e, chissà, forse io non sarei passato nel canale. Forse ancora una volta il mio intuito mi avrebbe salvato, salvando Stefano con me. Oppure forse questa volta il destino mi avrebbe fatto pagare il conto degli anni precedenti seppellendomi con i miei amici».
LE VITTIME
Micarelli era uno studente di Giurisprudenza, Nardis lavorava alla Soprintendenza dei Beni culturali e Vizioli all'Ufficio scolastico regionale. «Eravamo sposati da qualche anno», ricorda sua moglie, «e sin da quando l’ho conosciuto ricordo il suo grande amore per la montagna. Una passione che ho sempre vissuto con grande apprensione, perché temevo una tragedia. Peraltro, lui era entrato nel Soccorso alpino quasi come segno di riconoscenza nei confronti di alcune persone che, qualche anno prima, lo aiutarono in un momento di difficoltà». Per la signora Annamaria, dipendente dell’Agenzia delle entrate, sono stati anni difficili, con due bambini piccoli da crescere da sola. «Qualche anno fa», sottolinea, «ho perso anche mio figlio Lorenzo per un brutto male. Ho dovuto imparare a stringere i denti e andare avanti, fino a quando la vita mi ha dato la possibilità e il coraggio di guardare avanti».
LA MEMORIA
In memoria delle tre vittime del 1983, lunedì sarà intitolata ai “Tre amici”, dal Cai, una stazione di esercitazione per le stazioni Artva a Campo Imperatore. I tre saranno anche ricordati con una messa, sempre lunedì, alle 18 nella chiesa di San Pio X al Torrione.
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