Mafia e appalti, altri 20 sospettati all'Aquila
Chiesto il giudizio per Biasini e i tre calabresi coinvolti nell’indagine sulla ’ndrangheta
L’AQUILA. L’inchiesta sul tentativo di infiltrazioni nella ricostruzione della malavita calabrese è a una svolta importante dopo i quattro arresti del novembre 2011. Infatti ci sono le richieste di rinvio a giudizio per i principali sospettati ma nei mesi scorsi la polizia (squadra mobile e Sco), che ha condotto le indagini di pari passo con la finanza, ha individuato e segnalato alla procura della Repubblica dell’Aquila una ventina di soggetti che avrebbero avuto il ruolo di fiancheggiatori tra i quali, a quanto sembra, ci sarebbero anche degli aquilani. In tal molto il fascicolo, che fino a qualche mese fa conteneva pochi nominativi, si è arricchito in maniera considerevole. E, se le considerazioni degli investigatori sono esatte, non poteva essere diversamente visto che il tentativo di insediamento non può che poggiare su più persone per i necessari appoggi che questo comporta. Inoltre dalle carte delle indagini si è appreso che la ’ndrangheta aveva avviato iniziative per entrare nel territorio aquilano addirittura prima del terremoto del 6 aprile 2009 con il tentativo di intraprendere attività economiche e poi mettere le mani sugli appalti privati per la ricostruzione per i quali i controlli sono minori: appalti senza gara e senza certificati antimafia.
La presunta attività malavitosa è stata scoperta grazie a una montagna di intercettazioni che quasi otto mesi fa hanno portato agli arresti il giovane imprenditore aquilano Stefano Biasini finito nei guai insieme a tre persone vicine, secondo l’accusa, alla cosca calabrese Caridi-Zindato-Borghetto ovvero i fratelli Massimo Maria Valenti e Antonino Vincenzo Valenti e Francesco Ielo.
Biasini, secondo l’accusa, avrebbe fornito basi logistiche ai calabresi e attività di supporto allo scopo di acquisire in modo diretto o indiretto il controllo e la gestione di varie attività economiche favorendo la penetrazione in città e in Abruzzo degli interessi economici criminali delle famiglie affiliate. Per tutti gli arrestati, ora rimessi in libertà, l’accusa è quella di concorso esterno in associazione mafiosa. Ci sono stati tanti ricorsi al gip e al tribunale del riesame ma non sono serviti a cambiare le carte in tavola. Gli indagati hanno sempre respinto le accuse e in particolare non ha mai fatto un passo indietro il giovane Biasini. Egli dopo un lungo interrogatorio, si difese, assistito dai suoi avvocati Attilio Cecchini e Vincenzo Salvi, sostenendo di essere vittima di una strumentalizzazione da parte dei calabresi, assistiti dall’avvocato Amedeo Ciuffetelli, che lo volevano utilizzare come testa di ponte per sbarcare nella ricostruzione, e non solo, in grande stile. Gente, insomma, che ha fatto il doppio gioco sulla sua pelle. I difensori hanno sempre contestato alla procura una lettura unilaterale di indizi e intercettazioni nell’ambito di quella operazione di polizia giudiziaria che quando fu resa nota venne denominata Lypas prendendo spunto dal nome della ditta di Biasini. Al di là delle rispettive responsabilità delle persone già chiamate in causa, il fatto che ci siano molti altri sospettati dà all’indagine uno spessore forse impensato.
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