Mafia nigeriana, chiesti 14 anni di carcere
Al braccio destro del presunto boss dell’organizzazione contestata l’associazione per delinquere di stampo mafioso
L’AQUILA. Quattordici anni di carcere. È la richiesta del pm Stefano Gallo per uno dei principali imputati nel processo alla cosiddetta mafia nigeriana sgominata con l’operazione di polizia “Hello Bross”. Prostituzione, truffe “romantiche”, clonazione di carte di credito, falsificazione di documenti per l’immigrazione e sfruttamento dell’accattonaggio davanti ai supermercati. L’Aquila, secondo la ricostruzione degli investigatori, era diventata il centro della ragnatela tessuta in Italia e all’estero dal “cult” di Black Axe, articolazione territoriale di una delle più potenti organizzazioni criminali nigeriane, smantellata dopo oltre due anni di indagini. Trenta gli arresti scattati dopo l’ordinanza emessa dal gip Guendalina Buccella su richiesta del procuratore Michele Renzo e del sostituto Stefano Gallo. Ieri, dopo una lunga camera di consiglio, quest’ultimo ha richiesto 14 anni di carcere per uno dei principali imputati considerato il braccio destro di “Titus”, burattinaio del clan. Per l’imputato, assistito dagli avvocati Carlotta Ludovici e Gisella Mesoraca, erano stati conteggiati 21 anni, poi ridotti a 14 per via del rito abbreviato che riduce di un terzo la pena. A pesare sulle richieste del pm l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso contestata al membro ritenuto braccio destro del capo italiano, individuato dalla Procura in Solomon Obaseki, 35 anni, che gestiva le attività illecite dal suo appartamento affittato in via Tito Pellicciotti. Cinque gli imputati che hanno richiesto il rito abbreviato. Il collegio difensivo è composto anche dagli avvocati Roberto Civita del Foro di Napoli e Laura Ferraboschi Laura del Foro di Parma. Il capo dell’articolazione italiana del clan, stando a quanto ricostruito dalla questura che ha condotto le indagini, era sbarcato a Pozzallo nel 2014 proveniente dalla Libia. Il primo centro di accoglienza che l’ha ospitato era all’Aquila. Per un breve periodo il boss si era trasferito a Reggio Emilia per poi fare ritorno nel capoluogo abruzzese, scelto come sede operativa probabilmente per la vicinanza a Roma. A livello locale il capo poteva contare su 12 affiliati, il cui primo compito era quello di raccogliere elemosine davanti ai supermercati, ma che di fatto presidiavano il territorio. All’attività legata al cosiddetto cybercrimine l’organizzazione univa spaccio di droga e prostituzione. Dopo la requisitoria, l’imputato ha reso dichiarazioni spontanee e l’udienza è stata aggiornata al 4 aprile.(f.d.m.)
©RIPRODUZIONE RISERVATA.
©RIPRODUZIONE RISERVATA.