Onna, il paese prova a rinascere
Continuano le assegnazioni delle casette di legno nel nuovo villaggio.
ONNA. In questi mesi ho scritto sempre quello che pensavo e provavo davanti a una tragedia che non è solo la mia, ma anche, se non soprattutto, la tragedia di una città e di decine di migliaia di persone. Confesso che ieri, leggendo giornali, agenzie di stampa, dichiarazioni di politici - nostrani e non - mi sono forse per la prima volta vergognato di essere terremotato e per giunta onnese. Mi sono vergognato per essere considerato un privilegiato, e perchè no, un fortunato. Ieri mattina vado a Onna. Telefono a uno dei rappresentanti della Onna Onlus e gli chiedo se può procurarmi i moduli (che poi dovranno essere validati dal Comune dell’Aquila) per l’assegnazione di una delle «meravigliose» casette di legno di Onna.
Scopro ufficialmente di avere avuta assegnata la casetta numero 86: 50 metri quadrati circa, due camere, un bagno, un ingresso con angolo cottura, divano, tv, lavatrice, arredi, frigorifero pieno con, fra le altre cose, una confezione di polenta valsugana, piatto tipico del Trentino, da dove sono arrivati gli operai per costruire il villaggio. Dopo aver sbrigato la pratica vado verso la «Nuova Onna». Piove. Incontro un amico. Fino al sei aprile era uno dei miei vicini di casa. Ha l’ombrello e gli chiedo di farsi una passeggiata con me per scoprire se la sua nuova casa è vicina alla mia. Sì perché è anche così che rinasce una comunità. Senza squilli di tromba. Ma ritrovandosi, cercandosi, tentando di individuare il posto in cui potrò incontrare il compaesano, andare a casa sua per un caffé.
Magari litigare per uno spruzzo d’acqua troppo invadente. Gli operai sono ancora al lavoro. Stanno sistemando giardini e marciapiedi. La chiesa provvisoria non è ancora pronta ma lo sarà in breve tempo. Tiro un sospiro di sollievo: finalmente si riparte, finalmente un minimo di normalità. Torno in macchina e sfoglio i giornali. Su quelli nazionali Onna è praticamente solo sullo sfondo (come sullo sfondo è rimasta anche in tv): nessuno lo dice chiaramente ma si capisce che tutta l’Italia ci considera dei privilegiati, quelli che hanno casa e vitto gratis, quelli a cui se prima la fortuna aveva voltato le spalle oggi hanno vinto al Superenalotto. Poi mi arrivano strane voci: chi voleva in assegnazione la casetta a Onna e non l’ha avuta ipotizza complotti e minaccia sfracelli (come se non bastassero quelli che ha provocato il sisma). Leggo scritte un po’ dappertutto in cui la consegna delle case agli onnesi viene ritenuta un affronto verso chi ancora una casa non ce l’ha.
E allora mi sono vergognato. Mi sono vergognato di essere un terremotato, di essere uno che quella notte ha avuto la sfortuna di stare a Onna, di avere avuto l’attenzione mediatica del mondo, di aver preteso un tetto per l’inverno. Mi sono vergognato perché vivevo con i miei figli in una casa finita in frantumi dopo una “scossetta” del settimo grado. Mi sono vergognato perché in teoria oggi pomeriggio potrò avere le chiavi della «meravigliosa» nuova casetta. A questo punto qualcuno mi potrebbe dire: allora rinunciaci. Lo farei se non avessi da difendere e proteggere (spero meglio che nel passato) quel poco di famiglia che mi è rimasta. Ma ho deciso che non voglio vergognarmi da solo. Aspetterò il 30 settembre per entrare nella «villetta» colorata.
Quel giorno il governo e la protezione civile hanno promesso che consegneranno le case a qualche centinaia di persone a Bazzano e Preturo. Quando loro entreranno lo farò anch’io: a quel punto saremo in tanti a vergognarci: e il rossore sui volti si vedrà di meno. A questo siamo arrivati. Alla guerra fra «poveri» terremotati. Certo la «guerra» poteva essere evitata con scelte che andavano fatte prima (per esempio il modello Onna per tutte la frazioni). Oggi si sta correndo ai ripari ma la situazione è complicata e la rabbia aumenta ogni giorno che passa e fra una settimana, con la riapertura delle scuole, si rischia il far west. Avrei dovuto scrivere della prima notte passata dalle prime famiglie di onnesi nelle case di legno. Del fatto che le scosse lì dentro non si sentono. Del frigorifero pieno e delle lenzuola firmate. No, meglio di no. Quello è solo folklore. La realtà è ben più triste. E intanto piove sulle macerie delle nostre case e di tutte quelle dell’Aquila.
Scopro ufficialmente di avere avuta assegnata la casetta numero 86: 50 metri quadrati circa, due camere, un bagno, un ingresso con angolo cottura, divano, tv, lavatrice, arredi, frigorifero pieno con, fra le altre cose, una confezione di polenta valsugana, piatto tipico del Trentino, da dove sono arrivati gli operai per costruire il villaggio. Dopo aver sbrigato la pratica vado verso la «Nuova Onna». Piove. Incontro un amico. Fino al sei aprile era uno dei miei vicini di casa. Ha l’ombrello e gli chiedo di farsi una passeggiata con me per scoprire se la sua nuova casa è vicina alla mia. Sì perché è anche così che rinasce una comunità. Senza squilli di tromba. Ma ritrovandosi, cercandosi, tentando di individuare il posto in cui potrò incontrare il compaesano, andare a casa sua per un caffé.
Magari litigare per uno spruzzo d’acqua troppo invadente. Gli operai sono ancora al lavoro. Stanno sistemando giardini e marciapiedi. La chiesa provvisoria non è ancora pronta ma lo sarà in breve tempo. Tiro un sospiro di sollievo: finalmente si riparte, finalmente un minimo di normalità. Torno in macchina e sfoglio i giornali. Su quelli nazionali Onna è praticamente solo sullo sfondo (come sullo sfondo è rimasta anche in tv): nessuno lo dice chiaramente ma si capisce che tutta l’Italia ci considera dei privilegiati, quelli che hanno casa e vitto gratis, quelli a cui se prima la fortuna aveva voltato le spalle oggi hanno vinto al Superenalotto. Poi mi arrivano strane voci: chi voleva in assegnazione la casetta a Onna e non l’ha avuta ipotizza complotti e minaccia sfracelli (come se non bastassero quelli che ha provocato il sisma). Leggo scritte un po’ dappertutto in cui la consegna delle case agli onnesi viene ritenuta un affronto verso chi ancora una casa non ce l’ha.
E allora mi sono vergognato. Mi sono vergognato di essere un terremotato, di essere uno che quella notte ha avuto la sfortuna di stare a Onna, di avere avuto l’attenzione mediatica del mondo, di aver preteso un tetto per l’inverno. Mi sono vergognato perché vivevo con i miei figli in una casa finita in frantumi dopo una “scossetta” del settimo grado. Mi sono vergognato perché in teoria oggi pomeriggio potrò avere le chiavi della «meravigliosa» nuova casetta. A questo punto qualcuno mi potrebbe dire: allora rinunciaci. Lo farei se non avessi da difendere e proteggere (spero meglio che nel passato) quel poco di famiglia che mi è rimasta. Ma ho deciso che non voglio vergognarmi da solo. Aspetterò il 30 settembre per entrare nella «villetta» colorata.
Quel giorno il governo e la protezione civile hanno promesso che consegneranno le case a qualche centinaia di persone a Bazzano e Preturo. Quando loro entreranno lo farò anch’io: a quel punto saremo in tanti a vergognarci: e il rossore sui volti si vedrà di meno. A questo siamo arrivati. Alla guerra fra «poveri» terremotati. Certo la «guerra» poteva essere evitata con scelte che andavano fatte prima (per esempio il modello Onna per tutte la frazioni). Oggi si sta correndo ai ripari ma la situazione è complicata e la rabbia aumenta ogni giorno che passa e fra una settimana, con la riapertura delle scuole, si rischia il far west. Avrei dovuto scrivere della prima notte passata dalle prime famiglie di onnesi nelle case di legno. Del fatto che le scosse lì dentro non si sentono. Del frigorifero pieno e delle lenzuola firmate. No, meglio di no. Quello è solo folklore. La realtà è ben più triste. E intanto piove sulle macerie delle nostre case e di tutte quelle dell’Aquila.