Polo elettronico, è calato il sipario
Licenziati tutti i lavoratori dopo che negli anni Settanta negli stabilimenti erano in servizio cinquemila dipendenti
L’AQUILA. Fine di un'epoca. Quella della grande industria, che creava benessere diffuso. Della crescita economica, dei salari certi per gli operai. Si è spezzato anche l'ultimo anello della catena, stavolta per sempre: Finmek manda a casa i 180 lavoratori dello stabilimento di Pile, lo scampolo finale della fabbrica che ha segnato la storia della città e di migliaia di famiglie aquilane.
Nessuna società è disposta, al momento, a rilevare l'azienda. Le lettere di licenziamento sono già state inviate: l'atto conclusivo di un percorso sofferto e doloroso, scandito da anni di cassa integrazione e mobilità. Una sconfitta che pesa sugli operai, i primi a pagare le conseguenze di un simile epilogo, sulla politica locale, sulla città stessa, incapace di difendere i propri diritti. Basta guardarsi indietro per capire il ruolo che il polo elettronico ha rivestito per decenni. Finmek è solo l'ultimo cartello ad approdare all'Aquila, sotto la spinta del governo nazionale. È il 2003 quando il ministero dell'Industria accetta le condizioni imposte da Finmek per subentrare alla società Flextronics, in piena crisi industriale. Un passaggio segnato dalla protesta di piazza, con la città messa a ferro e fuoco, nel tentativo estremo di salvare mille posti di lavoro. L'annuncio ufficiale arriva il 31 maggio: la Flextronics passa il testimone alla Finmek società formata per il 70 per cento da Finmek e per il 30 per cento da Sviluppo Italia. Da allora sono passati 9 anni. La missione di rilancio dell'ex polo elettronico non è mai decollata. Anni in cui la fabbrica ha continuato a perdere pezzi e lavoratori, in un crescendo senza fine. L'emorragia occupazionale si è tradotta in un freno concreto allo sviluppo. Alla spicciolata, gli operai Finmek, posta presto in liquidazione, hanno abbandonato l'azienda. In 180 sono arrivati alla fase finale, gestita dal commissario Gianluca Vidal. Le operazioni di salvataggio tentate dal governo non hanno sortito alcun effetto e le lettere di licenziamento ne sono la prova. Cala il sipario sull'ex polo elettronico. La mancanza di progettualità ne ha decretato la fine. Il sisma ha fatto il resto, rendendo inagibile buona parte dello stabilimento.
Una fabbrica dal passato glorioso, nata quasi per caso in una terra di braccia strappate all'agricoltura e all'allevamento. Contadini trasformati in operai con la gratificazione di una busta paga e il salario a fine mese. Per oltre mezzo secolo il polo elettronico, quel circuito di aziende nate dall'avvento delle telecomunicazioni in Italia, ha alimentato la crescita del territorio. Lo stabilimento, lunghi moduli che si rincorrono tra corridoi e sale di produzione, è un chiaro esempio dell'architettura anni Settanta. Racconta di operai in lotta, battaglie sindacali, sviluppo e benessere. La matrice del polo elettronico risale al primo insediamento della Marconi: un vecchio stabilimento nato dopo il bombardamento della Zecca: di lì a poco sarebbe sorto, a due passi dalla stazione di Paganica, il magazzino Italtel. Il primo nucleo della Marconi si insedia a Pile nel 1952 con 800 lavoratori, ma il vero boom industriale arriva alla fine degli anni Sessanta, con l'avvento di Sit-Siemens, che possiede al suo interno la forza motrice del colosso delle telecomunicazioni, la Sip.
Nel 1975, nel nucleo industriale di Pile, apre i cancelli uno stabilimento nuovo di zecca. La ricchezza della città si misura intorno alla fabbrica che dà lavoro: una famiglia su cinque può contare sullo stipendio Italtel. Negli anni Ottanta, con l'avvento della manager Marisa Bellisario, inizia la prima, grande ristrutturazione della fabbrica che ha 5mila operai. Un numero destinato a decrescere sotto l'influsso altalenante del mercato che, in una manciata di mesi, fa perdere all'azienda 2mila occupati. A dettare legge è il rigore dei profitti. Si tagli su tutto: spese, stipendi, lavoratori. Il resto è storia: dismissioni, cessioni di rami di azienda, continui passaggi societari. Il polo elettronico perde pezzi. Il numero delle maestranze continua a scendere, nonostante la lotta degli operai, che faticano ad arrendersi. Dei fasti passati resta poco. Di quei camici azzurri solo il ricordo, mentre sulla fabbrica scende il tramonto.
Monica Pelliccione
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