PESCARA

Caos Premi Flaiano, Mieli: «Ecco il mio Flaiano, verrò a Pescara per fare la pace»

29 Gennaio 2025

Con questa intervista Paolo Mieli interviene nella disputa tra il sindaco di Pescara Masci (di Forza Italia) che ha tagliato 20mila euro e la curatrice del premio Carla Tiboni. La Tiboni ha minacciato di portare il premio altrove, Masci ha detto che non può portarlo da nessuna parte. La situazione di stallo si può risolvere - anche - grazie a questo invito al dialogo.

PESCARA. Con questa intervista Paolo Mieli interviene nella disputa tra il sindaco di Pescara Masci (di Forza Italia) che ha tagliato 20mila euro e la curatrice del premio Carla Tiboni. La Tiboni ha minacciato di portare il premio altrove, Masci ha detto che non può portarlo da nessuna parte. La situazione di stallo si può risolvere - anche - grazie a questo invito al dialogo.

Direttore…

«Aspetta, prima che tu mi faccia la domanda, devo dire una cosa. Io sono, tra i viventi, uno dei pochissimi che ha conosciuto Ennio Flaiano davvero bene. Ebbene, mi offro di venire gratis a Pescara, al servizio della Presidente dei premi, Carla Tiboni, al servizio del Sindaco di Pescara, Carlo Masci, al servizio dei pescaresi e dell’Abruzzo intero, a patto che la Presidente e il Sindaco si stringano la mano davanti a me».

Tu sei uno dei più grandi esperti di Flaiano. Chi è stato Flaiano e chi è Flaiano per la cultura italiana?

«Non sono un esperto di Flaiano per averlo letto o studiato. Lo sono perché Ennio è stato uno dei più cari amici della mia famiglia. Un uomo con cui ho passato la mia infanzia. E quando poi, diventato più grande, sono andato all’Espresso l’ho ritrovato. Flaiano per me è stato qualcosa di più di un amico. Mi ha tenuto una mano sulla spalla per tutta la mia formazione».

Questa è una notizia poco nota.

«Hai ragione. E ti svelo il perché della nostra amicizia di famiglia. Ennio aveva una figlia. Si chiamava Luisa, ma la chiamavano Lele. Lele soffriva di una gravissima encefalopatia che le rese la vita difficile. Non camminava bene, era afasica e intellettualmente faceva fatica. Lui ne scrisse meravigliose parole ne La valigia delle Indie. La curava il grande Giovanni Bollea, il padre della neuropsichiatria infantile. Mia madre dirigeva la rivista di Bollea e la seguiva con Rosetta, la moglie di Ennio e mamma di Lele. Insomma, c’era un rapporto di grandissima amicizia, facevamo le vacanze insieme e lui mi ha visto crescere».

La parte più politica e militante della tua giovinezza è nota, quella intima meno…

«Ecco, io ho avuto sempre un debito con questo padre nascosto che era Flaiano. Mi voleva bene. Sono stato fortunato ed è un privilegio crescere avendo in famiglia un grande. Penso che sia per questo che quando si fece una riedizione di Tempo di uccidere, mi chiamarono per fare una prefazione, perché conoscevano questo rapporto».

È stato un puntuto aforista

«Io lo considero un grande della letteratura italiana, non a caso è un vincitore del primo Premio Strega: è un nobile apripista nella famiglia nobile di quel nobile Premio. I suoi romanzi sono, semplicemente, divini. Forse non esiste un suo grande romanzo, ma i suoi aforismi, i suoi racconti, i suoi scritti sono inarrivabili. Lui è, per me, una sorta di Philip Roth italiano. Ci sono due cose brutte, che non mi piacciono, che riguardano Flaiano».

La prima?

«Una è che, essendo rimaste celebri alcune sue icastiche facezie, l’hanno catalogato come un battutista. Questo è profondamente ingiusto, perché Flaiano è stato, in realtà, un autore di uno spessore e una profondità notevoli e andrebbe ricordato per il grande contributo che ha lasciato alla letteratura e al cinema italiano».

La seconda?

«Fu il complicato e complesso rapporto con Federico Fellini. Che gli è debitore dei suoi più grandi film. Inutile nascondere che le più grandi opere di Fellini sono quelle sceneggiate da Flaiano. Però…»

Però?

«Però com’è noto, i due, dopo Otto e mezzo, ruppero le relazioni. E, secondo me, dopo Otto e mezzo, senza più Flaiano al suo fianco, Fellini ha fatto un solo film davvero bello che era Amarcord. Gli altri venuti dopo, onestamente, sono stati più modesti. I suoi capolavori Fellini li deve a Flaiano. Ennio lo sapeva, ed era una cosa di cui anche lui si doleva. C’è un famoso episodio, che viene spesso ricordato e che dice molte cose.

Quale episodio?

«Quando Fellini e Flaiano andarono a Hollywood per la cerimonia degli Oscar, Flaiano viaggiò in seconda classe. Non che Ennio volesse la poltrona executive, ma è una considerazione che segnala come non venisse riconosciuto il valore della figura dello sceneggiatore. Fellini si vestiva da Maestro, indossava il cappello e la sciarpona rossa, mentre Flaiano era relegato a essere una comparsa. Ma tutto il mondo sapeva davvero che l’arte della sceneggiatura, la grandezza dell’immaginazione era quella di Flaiano. E soprattutto lo sapeva il mondo del cinema. Flaiano è stato una personalità letteraria del cinema fondamentale nel secondo dopoguerra. Fondamentale. Per questo Pescara fa bene a esserne orgogliosa».

Direttore, ma com’è che, spessissimo, in Italia gli intellettuali di destra diventano poi bandiera della sinistra?

«Flaiano di destra non lo è mai stato».

Però amava andare di fioretto contro il Pci!

«Sì, quella era una delle sue arti più divertenti. Negli anni del dopoguerra sino agli anni ’60 (Flaiano morì nel 1972) c’erano praticamente solo scrittori di sinistra. Per essere più precisi, scrittori di sinistra significava essere sostanzialmente filocomunisti. Flaiano prendeva in giro i comunisti, ma lo faceva in una maniera elegante e selvaggia. Per questo spesso lo si inquadra come autore di destra. Ma non lo era. Però era uno che guardava tutto quel mondo con simpatia. Lui raccontava con indulgenza la seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, cioè gli anni in cui lui era giovane, perché era nato nel 1910. Insieme a Maccari, Longanesi, Panunzio, a quella generazione di fantastici giovani frondisti. Ma bisogna sottolineare un altro aspetto».

Quale?

Dopo il 1945, ebbe il merito di non volersi travestire da partigiano. Anzi, nutriva un leggero disprezzo per tutti quelli che quanto più erano stati fascisti, tanto più si sentivano in obbligo di travestirsi da antifascisti. Flaiano regalava la sua irrisione a quell’Italia che voleva descriversi come pura antifascista, li trattava con scherno e li apostrofava con il suo snobismo. Lui e i suoi amici non erano mai stati fascisti. O, se proprio vuoi, lo erano stati solo facendo bellissime riviste satiriche. Altri, suoi amici, furono fascisti».

A chi alludi?

«A chi fu messo all’indice, perché era stato fascista e aveva assunto una postura incerta nel dopoguerra. Penso a uno scrittore come Giuseppe Berto o a un bravo regista come Pietro Germi, che fu antifascista ma mai comunista o mai travestito da comunista. Flaiano, però, fu - se mi permetti - superiore agli altri».

Perché?

«Perché godeva del vantaggio di essere un grande scrittore. Non tutti gli altri cui ho accennato lo furono. Eppoi Flaiano, come ti ho detto, è stato uno importantissimo nel mondo del cinema. E ancora era stato il caporedattore del Mondo, il vero tempio di quell’Italia laica liberale che si poteva permettere il lusso di elargire con ampiezza sberleffi sia verso la Democrazia Cristiana, sia verso il Partito Comunista. In quegli anni così polarizzati, non essere iscritto ai partiti e appartenere a quel club elitario che fu Il Mondo era il massimo dell’aristocraticismo e della sciccheria. Ecco, Ennio Flaiano è stato l’unico a potersi fregiare di tre titoli nobiliari».

Quali?

«O si era bravi sceneggiatori. O si era bravi registi. O si era giornalisti di pregio. Ennio Flaiano era, contemporaneamente, tutt’e tre queste cose. Era un uomo rarissimo. Come lui non ce ne era nessun altro. In più, poi, era una persona profondamente raffinata, coltissima. Quando Il Mondo chiuse, lui disinvoltamente passò a fare il critico teatrale per L’Espresso. Poliedrico e affascinante».

La querelle di questi giorni tra Carla Tiboni e l’amministrazione comunale di Pescara porta a un dibattito più ampio. Che rapporto deve esserci tra le istituzioni culturali e le istituzioni politiche repubblicane?

«Ti rispondo semplicemente: le istituzioni politiche repubblicane devono stare in ginocchio nei confronti delle istituzioni culturali, soprattutto di quelle che hanno nel loro album di famiglia preziosità come Flaiano. Ammesso e non concesso, evidentemente, che sappiano di cosa si parla».

Mi sembra di sentire una cattiveria: vuoi dire che le istituzioni non conoscono l’importanza dell’autore che celebrano?

«Spesso hanno solo visto il nome di quel personaggio su una targa di una strada. Oppure gli hanno detto “guarda che quello è…”, ma non credo che abbiano contezza di chi fosse davvero Ennio Flaiano, ovviamente non parlo di Carlo Masci».

È giusto che le istituzioni ne onorino la memoria?

«Non credo che ce ne sia bisogno. Nel mondo in cui ho la fortuna di aver vissuto, quando si sente il nome di Flaiano le persone si alzano in piedi. Qualche anno fa fui invitato a una celebrazione di Flaiano. Onestamente devo dirti che rimasi stupito perché fu una manifestazione veramente all’altezza, fatta bene; poi promisero di istituzionalizzarla e ripeterla, ma lasciarono cadere e non se ne fece più niente. Forse c’era già il clima che viviamo oggi».

Ma anche la cultura deve sottostare allo spoil system? La politica tenta sempre di entrare a gamba tesa anche in queste istituzioni?

«Questa è una parte del problema. Ma è minima. L’altra parte - e insisto! - è che probabilmente non sanno chi sia davvero un gigante come Flaiano, se non per sentito dire. Quindi quando spunta un nome come quello di Ennio, ma parlo anche delle altre centinaia di altri nomi in altre cento città, la prima cosa che viene in mente a qualcuno è la possibilità di sistemare un parente scioperato, di ficcarlo lì in qualche ruolo, di dare una filo di luce al figlio di un amico, magari».

O all’amichetta di turno…

«Dopo ciò che è successo l’estate scorsa tutti stanno attenti all’amichetta. Si rischia troppo».

I premi letterari sono ancora uno strumento valido o ce ne sono ormai troppi?

«Sono molti, ma mai troppi. Io sono in un patente conflitto di interesse, perché sono nelle giurie di non so quanti premi letterari. Ma lo faccio volentieri. Non me ne viene nulla di economico, anche perché i premi letterari sono noti per essere gestiti in maniera avara. Però che in giro per l’Italia ci sia una sera all’anno, o magari più di una, in cui si festeggiano uno o più libri, per me è una cosa bella che fa bene ai libri e anche ai lettori. Vedo che il pubblico accorre. Certo, hanno un che di ridicolo quelli che hanno una finta competizione, con l’autore tizio che ci rimane male perché ha vinto l’autore caio. Però assegnare un premio letterario male non fa. Se poi lo si dedica al nome di una personalità e le si rende omaggio in maniera consapevole, si fa bene».

Vabbè, ma il Premio Flaiano si può organizzare ovunque!

«A Roma, a New York o a Civitella del Tronto, di cui sono cittadino onorario. Però un saggio amministratore, avendo a disposizione un nome come Flaiano non se lo deve lasciare sfuggire. Tra l’altro, gli organizzatori di queste manifestazioni non sono mai dei miliardari coperti d’oro e lo fanno per flaianismo, se mi si concede il neologismo».

Che scoppi la pace, allora?

«Subito. E io rinnovo la mia disponibilità a venire pro bono a Pescara.

Ma pace sia!»

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