Caso Pescaraporto: ricorso della procura contro le assoluzioni
Il responsabile Serpi chiede alla Corte d’appello dell’Aquila la condanna di D’Alfonso, Milia, Dezio, Ruffini e Di Biase
PESCARA. «Il contenuto dell’atto non è riconducibile a una autonoma determinazione dell’ufficio del Genio Civile, ma esprime invece il “Milia pensiero” e questo a seguito di una articolata, insistita, clandestina azione di sostituzione della volontà e interesse del privato a quelli dell’ufficio pubblico». Il procuratore della Repubblica, Massimiliano Serpi, non ha digerito l’assoluzione con formula piena dei cinque imputati del processo Pescaraporto, e presenta ricorso in appello chiedendo la condanna per tutti.
Nel processo, che si era tenuto con il rito abbreviato davanti al gup Gianluca Sarandrea, erano imputati l’ex governatore Luciano D’Alfonso, il dirigente del Genio Civile, Vittorio Di Biase, l’avvocato Giuliano Milia, l’attuale capo di gabinetto del Comune di Pescara, Guido Dezio, e l’ex segretario della presidenza regionale, Claudio Ruffini. Falso e abuso d’ufficio i reati di cui dovevano rispondere gli imputati, in relazione a quella contestata variazione di destinazione d’uso del complesso edilizio che doveva nascere lungo la riviera nord di Porta Nuova, presentata dalla società di cui fanno parte anche i figli di Milia. Tutto ruotava attorno a un documento firmato da Di Biase che avrebbe rivisto la sua iniziale posizione negativa sul rischio idraulico della zona, cambiando orientamento, secondo la procura, dietro la spinta di D’Alfonso.
Ma il teorema accusatorio era stato smontato dal giudice che nella sua sentenza aveva innanzitutto bollato le intercettazioni telefoniche che arrivavano da un altro procedimento della procura aquilana (captate sul telefono di Ruffini) e che diedero origine allo stralcio, definendole affette da «inutilizzabilità patologi ca». Erano infatti nate per una ipotesi di reato molto più grave, e non sarebbero mai state concesse per il procedimento sulla Pescaraporto, per cui inutilizzabili. Ma il nodo centrale della vicenda riguarderebbe un incontro tra Ruffini e Milia, voluto da D’Alfonso e fatto nello studio legale, nel corso del quale l’avvocato avrebbe aggiunto a matita, a quella che doveva essere la risposta del Genio Civile, dei suoi appunti. Ruffini avrebbe poi dovuto consegnare a Di Biase quegli appunti per confezionare la risposta sulla questione del rischio idraulico della zona dove insisteva il complesso edilizio.
Il fatto è che quell’appunto non è mai stato trovato, tanto che il giudice, in sentenza, scrive che «per scrupolo si deve altresì evidenziare che, mancando agli atti il manoscritto la cui redazione è attribuita al Milia, non risulta neanche possibile verificare il contenuto e tantomeno in che termini ed entro quali confini le note dallo stesso vergate siano state recepite dal Di Biase». E soprattutto, come si legge anche nello stesso ricorso in appello, è indiscutibile la paternità di quella lettera: «E’ pacifico che l’atto incriminato, la nota del Genio Civile del 15.3.2016, sia stato sottoscritto da Di Biase, senza che fosse a ciò costretto da una minaccia tale da togliergli ogni libertà». Ma, nonostante questo, la procura continua a sostenere il suo originario impianto accusatorio, affermando che quelle «condotte sono state caratterizzate da una “straordinaria” intromissione del presidente della Regione D’Alfonso in una specifica procedura (verifica di pericolo idraulico in un sito alla foce del fiume Pescara) curata dal Genio Civile, realizzata facendo pervenire al pubblico ufficiale un appunto del privato, controinteressato a ogni ipotesi di controllo-verifica-limitazione del titolo edilizio già posseduto, affinché detto ufficio di polizia idraulica si conformasse ai desideri del privato». Tutto questo quando sarebbe stato accertato che la competenza in quella materia non era del Genio Civile, ma dell’Autorità di Bacino.
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