Pescara

Di Pietrantonio: «Quando divorziai mio padre fece il diavolo a quattro, oggi ne parla con tranquillità»

8 Marzo 2025

«La battaglia sul linguaggio è giusta ma rischia di non arrivare a chi vive davvero situazioni di disagio. Ci sono donne che non sanno nulla di cultura woke ma che vivono lo stesso in condizioni degradanti, a loro bisogna pensare»

È nata in una campagna non intercettata dalle istanze femministe, cresciuta con il folklore dei racconti degli anziani. Ma quelle istanze, nella sua vita, ci sono arrivate. In che modo?

«In due momenti molto diversi della mia vita. Dall'infanzia alla prima adolescenza, sono stata immersa in una realtà rurale e molto patriarcale. Le donne della mia generazione o sottostavano o si battevano per arrivare a una minima emancipazione. Si lottava rischiando sulla propria pelle punizioni anche fisiche da parte dei padri patriarchi».

Come e in che momento sono cambiate le cose?

«Quando sono andata a vivere a Penne e sono stata educata, dalle ragazze più grandi, ai valori femministi che ho sentito subito molto vicini a me».

Per quali canali passava questa nuova educazione?

«Mi vengono in mente alcuni romanzi come Porci con le ali e Paura di volare, ma anche tanta saggistica, diffusa in quegli anni, sulle battaglie delle donne. Da quel punto in poi ho fatto convivere dentro di me quella radice feroce che mi legava al mondo contadino e le nuove istanze del femminismo».

Come ha fatto coesistere questi aspetti?

«Sapendo che, per quanto antitetici, mi appartenevano entrambi. Sono rimasta legata alla famiglia e alla mia origine, ma ho lottato molto contro mio padre per affermare delle libertà che poi, se vuoi, sono minime: uscire la sera, stare con gli altri. Come dice la voce narrante nell’Età fragile: “Volevamo soltanto essere giovani”. Direi che il punto fosse, all’epoca, proprio questo».

Voleva solo conquistare queste libertà? O c’era qualcosa di più?

«Mi rendo conto adesso, parlandone, che cercavo forse di introdurre, in quel mondo piccolo e ristretto, l’idea che la vita delle donne potesse e dovesse essere diversa».

E com’è andata a finire?

«Ogni tanto con mio padre, che ora ha 88 anni, ricordiamo quei momenti quando da giovane ero disposta, per far valere certi principi, ad affrontare di tutto: litigate feroci, punizioni, a volte anche le botte. Non mi sono fatta intimidire dalle minacce, che erano tipiche dei padri di quella generazione e di quel sistema educativo».

E le cose lì, dopo tanti anni, sono davvero cambiate?

«Qualche tempo fa ho sentito mio padre parlare con il vicino di casa a proposito di una coppia che stava divorziando. Lui lo faceva con grande serenità, parlandone come di una cosa ordinaria. Gli ho chiesto: “Perché quando ho divorziato io hai fatto il diavolo a quattro, tanti anni fa?”. Risposta: “Perché oggi lo fanno in tanti, tu invece sei stata la prima della contrada”».

È l’uso che fa la regola.

(Ride, ndr) «Esattamente. In quell’epoca noi donne abbiamo dovuto, rischiando molto, fare da apripista su tanti temi».

Nel romanzo L’Arminuta il contrasto campagna-città è più forte che in altri suoi romanzi. Anche il lavoro in campagna è diverso da quello di città e non rende liberi. Nella sua battaglia di emancipazione, che ruolo ha avuto il lavoro?

«Ho capito che l’unica strada per potermi liberare da quel sistema di valori che voleva le donne totalmente soggette al volere degli uomini era studiare e lavorare. Questo però credo che valga anche oggi: l’indipendenza economica è un prerequisito fondamentale per rendersi autonomi e quindi liberi dagli altri. Allontanarsi da relazioni violente è molto più complesso quando manca l’autonomia economica».

Non ha l’impressione che le battaglie femministe di oggi siano più un fatto esteriore che non di conquista reali di diritti?

«Intanto credo che oggi si debba parlare di femminismi, al plurale. Ci sono tante correnti e questo non sempre aiuta, ma rende l’idea di cos sia oggi l’arcipelago femminista. Certo ho l’impressione che alcune battaglie volino troppo alte».

In che senso?

«L’attenzione al linguaggio, di cui non nego l’importanza, mi sembra eccessiva a scapito di altri aspetti che secondo me sono prioritari. Sono dibattiti che non arrivano dove ci sono davvero condizioni degradanti, non arrivano alle “ultime”. Ci sono donne che non sanno assolutamente nulla di cultura “woke” ma che vivono in situazioni inaccettabili, che dovrebbero essere aiutate con urgenza».

Quali sono le “ultime” di cui parla?

«Mi viene in mente la situazione delle donne immigrate, su cui girava un doppio carico: quello delle culture di origine, che spesso sono patriarcali in un modo davvero violento, e quello della nostra società, in cui scontano il fatto di essere donne, straniere e povere. Lì dovremmo lavorare davvero».