Il vice capo della Polizia Savina: «Armare i cittadini non ha senso»
L'ex capo della Squadra Mobile: «Amavo Pescara, una città effervescente tra droga e bische»
PESCARA. Figlio di quattro generazioni nelle forze armate – tra nonni carabinieri e finanzieri, papà nell’Arma, zio pilota morto in guerra – dunque con il senso dello Stato praticamente nel Dna affiancato da una intelligenza analitica e una incrollabile fiducia nella giustizia. Cosa altro poteva fare nella vita Luigi Savina se non «il poliziotto»?
E che poliziotto: classe 1954 entra in Polizia a 26 anni, gira l’Italia dalla Sicilia alle Alpi investigando e arrestando mafiosi, terroristi, assassini, latitanti e corrotti di ogni specie, attraversa un pezzo della storia del Paese portando avanti una carriera brillante che lo vede ora ai vertici – vice capo della polizia – alzarsi«ogni mattina ancora, dopo 37 anni, contento di andare al lavoro», assicura sorridendo.
La pensione non è un miraggio: «Fine corsa il 1° giugno 2019 per limiti di età», rivela ridendo. E forse allora potrà godersi a tempo pieno quei due bimbetti che gli girano intorno strillando felici, 2 e 3 anni di argento vivo, nuovo dono della vita dopo un primo figlio ormai adulto. E tornare in Abruzzo, «una terra che amo», nella Chieti delle radici o nella Pescara «città effervescente» che lo ha visto muovere i primi passi da investigatore attento e che non lo dimentica. Ma lo premia, lo invita nelle occasioni importanti in cui la legalità è al centro di incontri e dibattiti nei luoghi istituzionali come tra i cittadini e nelle scuole, «tra i ragazzi che sono come spugne, capaci di assorbire ogni concetto».
Dottor Savina quando decide di fare il poliziotto?
Mentre mi sto per laureare in giurisprudenza all’università di Teramo, intorno ai 22 anni. In realtà avevo preso contatti con uno studio di avvocati, intanto lavoravo per una azienda privata nei pressi di Roma come assistente al personale. Arriva il concorso in polizia, lo faccio, lo vinco e parto. Prima Roma, poi subito Venezia e lì dopo mesi capisco bene che era quello che volevo fare. E ho continuato. Probabilmente quello che ho sempre voluto è essere al servizio del Paese, essere utile. Ma non mi sono tagliato i ponti con altre cose, perché credo da sempre che possiamo essere utili facendo qualsiasi mestiere, l’operaio o il medico, basta lavorare con coscienza.
Prima sede la Serenissima, primissimi anni ’80, un’altra Italia. Com’era la vita?
L’Italia era nella morsa del terrorismo. A Venezia c’erano due colonne delle Brigate Rosse e una di Prima linea, poi c’era la mala della Riviera del Brenta, le rapine agli orafi vicentini... Avevo 26 anni, quando ero su, la situazione di conflittualità a Porto Marghera era molto elevata. Il 29 gennaio 1980 era stato ucciso Sergio Gori, vicedirettore dello stabilimento, e pochi mesi dopo, il 12 maggio, venne assassinato il commissario Alfredo Albanese, che seguiva le indagini dell’omicidio Gori. E poi l’omicidio dell’ingegner Taliercio, che le Br ritenevano responsabile delle morti sul lavoro.
Ma erano anche gli anni della diffusione della droga.
Si moriva di eroina, dello sconosciuto Aids. Morti per overdose a tempesta. Mi sembrava di vivere sul set di un film che avevo visto da laureando e che mi aveva colpito, “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”: ragazzi che rubavano in casa, si bucavano e morivano. E il terrorismo che dilagava. Ne siamo venuti fuori.
Lei era in Veneto quando rapirono il generale Dozier, poi liberato dai Nocs a Verona.
Sì. Ho conosciuto Dozier lo scorso anno, viene sempre per celebrare gli anniversari della sua liberazione e va a salutare i reparti speciali. Mi ha commosso: sono vivo perché voi mi avete liberato, mi ha detto.
E poi dove l’ha portata il servizio?
Il quadro era: la criminalità organizzata che si espande a macchia d’olio in tutta Italia, Riina in ascesa e in guerra con i Corleonesi, la guerra dei cutoliani. A Milano si sparavano Turatello e Vallanzasca, si contavano 60-70 sequestri di persona l’anno. Un’altra Italia, guadandola ora, nel mio piccolo, facendo parte della squadra polizia- magistratura-cittadini dico che ne siamo venuti a capo.
Ma ce n’è voluta. Intanto lei era dove sibilavano i proiettili.
Nell’89 andai alla sezione omicidi di Palermo: qui c’erano 150 omicidi all’anno, più altrettante lupare bianche. Due anni con l’onore di conoscere Giovanni Falcone prima che andasse a Roma.
Quindi destinazione Pescara, a capo della squadra mobile dal 1991 al ’94.
All’epoca Pescara era la città più effervescente d’Abruzzo e forse della riviera adriatica da Foggia a Venezia. Era alla moda, festaiola, curiosa, viva. E la droga scorreva a fiumi, c’era qualche omicidio tra bande rivali per il controllo delle bische, si giocava d’azzardo parecchio. Facemmo l’operazione Black Jack, la prima operazione antimafia in Abruzzo. Io portai l’esperienza fatta in altre sedi, qui si arrestava per droga senza una lettura sistematica del fenomeno criminale, facendola ecco l’associazione a delinquere. Valutammo qualcosa anche di stampo mafioso, il 416 bis ha retto al vaglio della Cassazione per soggetti del Napoletano e zone incandescenti della Puglia. L’Abruzzo era guardato con interesse dalla criminalità organizzata di altre regioni.
Ci fu l’omicidio Fabrizi rimasto un giallo...
Ci abbiamo lavorato tanto, con il procuratore Enrico Di Nicola. Ma in corte d’Assise d’appello il teorema accusatorio non resse.
Erano anche gli anni di tangentopoli.
Sì, esplose Mani pulite anche tra Pescara e Chieti con relativi arresti importanti. Sembra passata un secolo.
Poi il ritorno alla Mobile di Palermo e l’arresto di Giovanni Brusca, uno dei più importanti membri di Cosa nostra, condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo strangolato e sciolto nell'acido; quello di Falcone, Francesca Morvillo e la scorta. Tutti ricordano l’esultanza dei poliziotti in passamontagna dopo quell’arresto. Cosa si prova quando si conclude una operazione del genere?
Dopo le stragi del ’92 e la morte di Falcone e Borsellino, del ’93 a Firenze, Roma, Milano accettai di tornare a Palermo, ci avevo lavorato, conoscevo i magistrati, situazione, arrestammo diversi latitanti di mafia. E Brusca. Che si prova? Sa, ci avevamo lavorato tanto, con una accelerazione negli ultimi 20 giorni. C’era il timore di sbagliare, che significava buttare anni di lavoro. Una emozione grandissima, che ci ha fatto esultare come ragazzini. Un momento liberatorio. Poi ne abbiamo presi altri di latitanti, ne caddero a decine in quegli anni, siamo nel ’97.
Quando scatta l’emergenza Napoli ...
Vado a dirigere la criminalpol, si occupava solo di criminalità organizzata, prendiamo un po’ di latitanti ma nel ’99 viene sciolta e io rientro per un anno a Pescara, prendo fiato e poi a inizio 2000 vado in Albania, da dove. partivano gommoni per l’Italia e c’era l’eroina che arrivava con loro che facevano i corrieri. Usai la mia esperienza investigativa anche lì. Avevo personale che avevo conosciuto in Veneto, in Sicilia. Quindi eccomi a Milano, sempre alla Mobile, governo D’Alema: c’erano stati 10 omicidi in 10 giorni.
Quando ha smesso di fare l’investigatore?
Quando vengo nominato questore a Terni. E mi occupo di ordine pubblico: c’era il problema dei licenziamenti alle acciaierie. Poi 2 anni a Ferrara, quando ci fu il caso Aldrovandi, lo studente ferrarese,morto il 25 settembre 2005. Per l’ anniversario si temevano disordini con gli Antagonisti. In realtà mi insediai e 10 giorni dopo chiamai genitori di Federico Aldrovandi: la mamma non mi fece neanche parlare, disse che attraverso il suo blog avrebbe chiesto pace. Vennero ragazzi dei centri sociali da tutta Italia e non ci fu neanche uno starnuto di troppo.
L’impegno nell’ordine pubblico continua a Padova, Cagliari, Milano per l’Expo con minaccia terrorismo. Le manca l’attività di investigazione?
Direi che sono pago di 24 anni da investigatore. Mi piaceva l’ho fatto con passione, ma bisogna capire quando appendere le scarpette al chiodi e dire basta altrimenti si diventa ridicoli.
Un ricordo speciale?
La soddisfazione di fare qualcosa di utile al mio Paese l’ho centrato e mi dà grande serenità. Le cose speciali le tengo per me, sono un poliziotto.
Si parla molto di una liberalizzazione delle armi. Lei che ne pensa?
Credo che la diffusione a pioggia non serva a nulla: se sei una persona per bene e ti armi, sei destinato a perdere. Guardiamo l’America per capire il limite e il rischio di armare un Paese.L’Italia è un paese sicuro. Veniamo da vittorie su terrorismo mafioso terrorismo politico, grande crimine, bisogna continuare a lavorare. I reati sono in diminuzione. Anche quelli piccoli più percepiti dalla popolazione. Checcè ne dicano i giornali (ride).
Ma reati allarmanti ce ne sono...
Per me tutti lo sono. Ho visto il pianto del pensionato derubato, della donna maltrattata, su su... Ma i reati stanno scendendo e migliora la prevenzione, il controllo del territorio. Ci vuole la collaborazione dei cittadini.
E anche soldi per rifornire di benzina le auto della polizia...
Sì, ben vengano, ma non strumentalizziamo giuste richieste sindacali. Io in 37 anni di servizio non sono rimasto mai a piedi.
E che poliziotto: classe 1954 entra in Polizia a 26 anni, gira l’Italia dalla Sicilia alle Alpi investigando e arrestando mafiosi, terroristi, assassini, latitanti e corrotti di ogni specie, attraversa un pezzo della storia del Paese portando avanti una carriera brillante che lo vede ora ai vertici – vice capo della polizia – alzarsi«ogni mattina ancora, dopo 37 anni, contento di andare al lavoro», assicura sorridendo.
La pensione non è un miraggio: «Fine corsa il 1° giugno 2019 per limiti di età», rivela ridendo. E forse allora potrà godersi a tempo pieno quei due bimbetti che gli girano intorno strillando felici, 2 e 3 anni di argento vivo, nuovo dono della vita dopo un primo figlio ormai adulto. E tornare in Abruzzo, «una terra che amo», nella Chieti delle radici o nella Pescara «città effervescente» che lo ha visto muovere i primi passi da investigatore attento e che non lo dimentica. Ma lo premia, lo invita nelle occasioni importanti in cui la legalità è al centro di incontri e dibattiti nei luoghi istituzionali come tra i cittadini e nelle scuole, «tra i ragazzi che sono come spugne, capaci di assorbire ogni concetto».
Dottor Savina quando decide di fare il poliziotto?
Mentre mi sto per laureare in giurisprudenza all’università di Teramo, intorno ai 22 anni. In realtà avevo preso contatti con uno studio di avvocati, intanto lavoravo per una azienda privata nei pressi di Roma come assistente al personale. Arriva il concorso in polizia, lo faccio, lo vinco e parto. Prima Roma, poi subito Venezia e lì dopo mesi capisco bene che era quello che volevo fare. E ho continuato. Probabilmente quello che ho sempre voluto è essere al servizio del Paese, essere utile. Ma non mi sono tagliato i ponti con altre cose, perché credo da sempre che possiamo essere utili facendo qualsiasi mestiere, l’operaio o il medico, basta lavorare con coscienza.
Prima sede la Serenissima, primissimi anni ’80, un’altra Italia. Com’era la vita?
L’Italia era nella morsa del terrorismo. A Venezia c’erano due colonne delle Brigate Rosse e una di Prima linea, poi c’era la mala della Riviera del Brenta, le rapine agli orafi vicentini... Avevo 26 anni, quando ero su, la situazione di conflittualità a Porto Marghera era molto elevata. Il 29 gennaio 1980 era stato ucciso Sergio Gori, vicedirettore dello stabilimento, e pochi mesi dopo, il 12 maggio, venne assassinato il commissario Alfredo Albanese, che seguiva le indagini dell’omicidio Gori. E poi l’omicidio dell’ingegner Taliercio, che le Br ritenevano responsabile delle morti sul lavoro.
Ma erano anche gli anni della diffusione della droga.
Si moriva di eroina, dello sconosciuto Aids. Morti per overdose a tempesta. Mi sembrava di vivere sul set di un film che avevo visto da laureando e che mi aveva colpito, “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”: ragazzi che rubavano in casa, si bucavano e morivano. E il terrorismo che dilagava. Ne siamo venuti fuori.
Lei era in Veneto quando rapirono il generale Dozier, poi liberato dai Nocs a Verona.
Sì. Ho conosciuto Dozier lo scorso anno, viene sempre per celebrare gli anniversari della sua liberazione e va a salutare i reparti speciali. Mi ha commosso: sono vivo perché voi mi avete liberato, mi ha detto.
E poi dove l’ha portata il servizio?
Il quadro era: la criminalità organizzata che si espande a macchia d’olio in tutta Italia, Riina in ascesa e in guerra con i Corleonesi, la guerra dei cutoliani. A Milano si sparavano Turatello e Vallanzasca, si contavano 60-70 sequestri di persona l’anno. Un’altra Italia, guadandola ora, nel mio piccolo, facendo parte della squadra polizia- magistratura-cittadini dico che ne siamo venuti a capo.
Ma ce n’è voluta. Intanto lei era dove sibilavano i proiettili.
Nell’89 andai alla sezione omicidi di Palermo: qui c’erano 150 omicidi all’anno, più altrettante lupare bianche. Due anni con l’onore di conoscere Giovanni Falcone prima che andasse a Roma.
Quindi destinazione Pescara, a capo della squadra mobile dal 1991 al ’94.
All’epoca Pescara era la città più effervescente d’Abruzzo e forse della riviera adriatica da Foggia a Venezia. Era alla moda, festaiola, curiosa, viva. E la droga scorreva a fiumi, c’era qualche omicidio tra bande rivali per il controllo delle bische, si giocava d’azzardo parecchio. Facemmo l’operazione Black Jack, la prima operazione antimafia in Abruzzo. Io portai l’esperienza fatta in altre sedi, qui si arrestava per droga senza una lettura sistematica del fenomeno criminale, facendola ecco l’associazione a delinquere. Valutammo qualcosa anche di stampo mafioso, il 416 bis ha retto al vaglio della Cassazione per soggetti del Napoletano e zone incandescenti della Puglia. L’Abruzzo era guardato con interesse dalla criminalità organizzata di altre regioni.
Ci fu l’omicidio Fabrizi rimasto un giallo...
Ci abbiamo lavorato tanto, con il procuratore Enrico Di Nicola. Ma in corte d’Assise d’appello il teorema accusatorio non resse.
Erano anche gli anni di tangentopoli.
Sì, esplose Mani pulite anche tra Pescara e Chieti con relativi arresti importanti. Sembra passata un secolo.
Poi il ritorno alla Mobile di Palermo e l’arresto di Giovanni Brusca, uno dei più importanti membri di Cosa nostra, condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo strangolato e sciolto nell'acido; quello di Falcone, Francesca Morvillo e la scorta. Tutti ricordano l’esultanza dei poliziotti in passamontagna dopo quell’arresto. Cosa si prova quando si conclude una operazione del genere?
Dopo le stragi del ’92 e la morte di Falcone e Borsellino, del ’93 a Firenze, Roma, Milano accettai di tornare a Palermo, ci avevo lavorato, conoscevo i magistrati, situazione, arrestammo diversi latitanti di mafia. E Brusca. Che si prova? Sa, ci avevamo lavorato tanto, con una accelerazione negli ultimi 20 giorni. C’era il timore di sbagliare, che significava buttare anni di lavoro. Una emozione grandissima, che ci ha fatto esultare come ragazzini. Un momento liberatorio. Poi ne abbiamo presi altri di latitanti, ne caddero a decine in quegli anni, siamo nel ’97.
Quando scatta l’emergenza Napoli ...
Vado a dirigere la criminalpol, si occupava solo di criminalità organizzata, prendiamo un po’ di latitanti ma nel ’99 viene sciolta e io rientro per un anno a Pescara, prendo fiato e poi a inizio 2000 vado in Albania, da dove. partivano gommoni per l’Italia e c’era l’eroina che arrivava con loro che facevano i corrieri. Usai la mia esperienza investigativa anche lì. Avevo personale che avevo conosciuto in Veneto, in Sicilia. Quindi eccomi a Milano, sempre alla Mobile, governo D’Alema: c’erano stati 10 omicidi in 10 giorni.
Quando ha smesso di fare l’investigatore?
Quando vengo nominato questore a Terni. E mi occupo di ordine pubblico: c’era il problema dei licenziamenti alle acciaierie. Poi 2 anni a Ferrara, quando ci fu il caso Aldrovandi, lo studente ferrarese,morto il 25 settembre 2005. Per l’ anniversario si temevano disordini con gli Antagonisti. In realtà mi insediai e 10 giorni dopo chiamai genitori di Federico Aldrovandi: la mamma non mi fece neanche parlare, disse che attraverso il suo blog avrebbe chiesto pace. Vennero ragazzi dei centri sociali da tutta Italia e non ci fu neanche uno starnuto di troppo.
L’impegno nell’ordine pubblico continua a Padova, Cagliari, Milano per l’Expo con minaccia terrorismo. Le manca l’attività di investigazione?
Direi che sono pago di 24 anni da investigatore. Mi piaceva l’ho fatto con passione, ma bisogna capire quando appendere le scarpette al chiodi e dire basta altrimenti si diventa ridicoli.
Un ricordo speciale?
La soddisfazione di fare qualcosa di utile al mio Paese l’ho centrato e mi dà grande serenità. Le cose speciali le tengo per me, sono un poliziotto.
Si parla molto di una liberalizzazione delle armi. Lei che ne pensa?
Credo che la diffusione a pioggia non serva a nulla: se sei una persona per bene e ti armi, sei destinato a perdere. Guardiamo l’America per capire il limite e il rischio di armare un Paese.L’Italia è un paese sicuro. Veniamo da vittorie su terrorismo mafioso terrorismo politico, grande crimine, bisogna continuare a lavorare. I reati sono in diminuzione. Anche quelli piccoli più percepiti dalla popolazione. Checcè ne dicano i giornali (ride).
Ma reati allarmanti ce ne sono...
Per me tutti lo sono. Ho visto il pianto del pensionato derubato, della donna maltrattata, su su... Ma i reati stanno scendendo e migliora la prevenzione, il controllo del territorio. Ci vuole la collaborazione dei cittadini.
E anche soldi per rifornire di benzina le auto della polizia...
Sì, ben vengano, ma non strumentalizziamo giuste richieste sindacali. Io in 37 anni di servizio non sono rimasto mai a piedi.