CORONAVIRUS
Intervista a D’Amario: "In autunno l’epidemia peggiorerà"
Il capo del Dipartimento salute traccia il quadro dei contagi in Abruzzo: «Più malati, ma questa volta il sistema sanitario può reggere l’impatto»
PESCARA. I numeri del contagio in Abruzzo fotografano una situazione in rapido peggioramento. Ieri altri 43 positivi.
Così, dopo un periodo di apparente tranquillità conseguente al lockdown, con la ripresa degli spostamenti delle persone prima, con le vacanze, la movida e la voglia di normalità poi, il virus è stato reintrodotto ed ha ripreso a circolare soprattutto all’interno dei nuclei familiari. Tutto questo in un periodo non considerato quello più a rischio: il caldo, infatti, è nemico del coronavirus. Che cosa accadrà, quindi, nei prossimi mesi autunnali e invernali? L’Abruzzo è pronto ad affrontare una seconda emergenza?
Lo abbiamo chiesto al direttore del Dipartimento Salute della Regione Abruzzo, Claudio D'Amario, componente del Comitato tecnico scientifico del Governo.
Dottor D'Amario, cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi mesi?
«Assistiamo ad un trend in aumento. C'è una ripresa della circolazione del virus, ma era prevedibile. C'era stato un momento di rallentamento grazie al lockdown e a giugno avevamo quasi azzerato i contagi. Poi la circolazione è ricominciata con la movimentazione fisiologica delle persone. Non sempre le misure preventive vengono rispettate e ci sono stati momenti di rilassamento. Andiamo verso l'autunno e la circolazione del virus sicuramente riprenderà e aumenterà. Si starà meno all'aperto e saranno più momenti di aggregazione. La situazione sarà certamente più delicata».
Preoccupa, in tal senso, la riapertura delle scuole?
«Le scuole forse ci preoccupano meno, perché ci sono procedure e protocolli ben precisi. Ciò che preoccupa è quello che non è procedurabile. Anche il trasporto pubblico può favorire la circolazione del virus, ma pure in quel caso se si rispettano le procedure i rischi si abbassano. Maggiori rischi sono rappresentati da tutti quei contesti in cui non ci sono procedure e controlli. Penso ad esempio ai momenti di convivialità, alle feste, alla ristorazione o ai locali, quando, con il freddo, si starà tutti al chiuso».
Analizzando il trend abruzzese, cosa ci dicono gli ultimi dati?
«Il problema non è rappresentato tanto dai focolai noti, anche grandi, perché sono più controllabili. L'attività di tracciamento dei contatti, anche a fronte di numeri elevati, consente comunque di circoscrivere il contagio. Campanello d'allarme, invece, sono i casi sparsi sul territorio, quelli più difficili da ricostruire. In Abruzzo, con i dati più recenti, iniziamo ad assistere a un fenomeno di questo tipo. Siamo al lavoro per potenziare le equipe territoriali e quelle dedicate alla prevenzione. In questa fase della pandemia la battaglia si combatte anche e soprattutto sul territorio».
C'è da dire, comunque, che oggi il sistema è più preparato rispetto alla prima fase dell'emergenza. È così?
«Assolutamente sì. Ora sappiamo che dobbiamo intervenire precocemente. All'inizio, ad esempio, consideravamo la febbre come un sintomo minore, adesso invece è un segnale di allarme; abbiamo inoltre capito che la saturazione dell'ossigeno va trattata precocemente. Purtroppo è una patologia strana, sconosciuta, drammaticamente originale. Basti pensare che siamo di fronte ad un virus respiratorio che però dà anche problemi di tromboembolie in persone relativamente giovani. Casi più gravi, purtroppo, ci saranno, ma sicuramente, rispetto ai mesi scorsi, abbiamo più strumenti per far sì che il quadro clinico dei pazienti si evolva favorevolmente».
I contagi ospedalieri hanno rappresentato un'emergenza nell'emergenza. Come tutelare oggi i soggetti più fragili?
«Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare che il virus, attraverso gli operatori o le visite ai pazienti, rientri negli ospedali e in tutte quelle strutture in cui ci sono pazienti estremamente fragili. Siamo al lavoro anche su questo e stiamo valutando le modalità più efficaci per tutelare gli ospiti, come ad esempio l'introduzione di limiti alle visite. Grande attenzione anche alle case circondariali».
Il lockdown ha avuto i suoi effetti positivi. C'è il rischio di una nuova chiusura totale?
«All'estero, dove la situazione è ben peggiore, invidiano l'Italia. Il nostro segreto è stato bloccare la catena di trasmissione, che ci ha permesso negli ultimi quattro mesi di fare una vita quasi normale. Un lockdown di tre settimane sarebbe stato inutile. Mi auguro che non serva un nuovo lockdown, ma dobbiamo essere così intelligenti da capire l'importanza della mascherina e del distanziamento».
Infine come responsabilizzare i cittadini?
«Tutti dobbiamo capire che misure quali l'uso della mascherina, il distanziamento sociale o la costante igiene delle mani non sono di tipo emergenziale. Per un po' di tempo devono entrare a far parte della quotidianità, devono essere uno stile di vita. Più metabolizziamo i comportamenti corretti e meno saremo costretti a ridurre le nostre possibilità di vita nei mesi a venire. Ora siamo ancora in una fase di emergenza. Superata la fase epidemica entreremo in quella endemica e con il coronavirus avremo a che fare almeno per due o tre anni. L'unica difesa è adottare i comportamenti corretti».
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